La cultura della spiaCosì i social network ci hanno trasformato in un esercito di controllori

Non sono solo le piattaforme a esercitare la sorveglianza (a fini commerciali). Ma anche gli stessi utenti: osservano, monitorano, controllano. A volte stalkerano. Un’inclinazione favorita, se non incanalata, dal modo in cui sono progettati i programmi utilizzati

Marty MELVILLE / AFP

Oggi molte persone sono consapevoli della sorveglianza dei social network. I dibattiti si svolgono lungo uno spettro che va da spensierate rassicurazioni che piacerebbero a Mark Zuckerberg, il fondatore di Facebook, convinto che la privacy sia obsoleta – a meno che non lo riguardi personalmente: fa di tutto per proteggerla a casa sua! – ad altri che scorgono segni irrimediabilmente sinistri di influenza e controllo.

Si tratta di una tendenza contraddittoria la cui natura controversa non mostra segni di cedimento. Vale la pena di ripercorrere il dibattito per allargare la prospettiva.

Molti dei primi critici dei social network hanno osservato che in un simile contesto, pur essendo presenti alcune forme classiche di sorveglianza dall’alto, proliferano anche altre attività, che coinvolgono forme maggiormente reciproche di sorveglianza oltre a quella che Alice Marwick definisce “sorveglianza sociale”.

Tuttavia, molti mettono in discussione il possibile significato di privacy in un mondo che celebra la pubblicità. Per esempio, con un apparente ossimoro, danah boyd parla di “privacy messa in rete”.

Gli utenti caricano regolarmente immagini di altri o condividono informazioni sugli altri, e hanno a disposizione strumenti per scoprire cose sugli altri, come Facebook Graph Search [Il motore di ricerca è stato poi smantellato nel 2018, N.d.T.].

Questi vengono utilizzati per estrarre dati altrui e individuare pattern. Il dibattito sui social network e la sorveglianza si complica ulteriormente.

Alcuni degli studi più interessanti su questo argomento vengono condotti sulla categoria di utenti più vasta, i venti-trentenni. Spesso, tuttavia, i social hanno un’utenza più giovane, di adolescenti e preadolescenti. In tal senso le scoperte di Valerie Steeves sui bambini, i giovani e i social network sono significative.

È chiaro che le abilità necessarie si imparano in tenera età. Questi utenti “provano nuove identità e si connettono con gli amici” e, pur tentando in ogni modo di evitare lo sguardo sorvegliante di genitori e insegnanti, i ragazzi dagli undici ai diciassette anni accettano una sorveglianza laterale come strumento per scoprire la propria identità.

Passando alla sorveglianza online da parte dei genitori, il gruppo più giovane continua ad accettarla come una forma di “cura”, mentre agli adolescenti più grandi potrebbero rizzarsi i peli al pensiero di essere “controllati”: “Mia mamma continua a [postarmi]: ‘Sei su Facebook! Esci! Fai i compiti!’. E io… le tolgo l’amicizia”.

Potrebbero anche rendersi conto che i genitori stanno cercando di proteggerli e di aiutarli, ma sentono di dover risolvere le cose da soli. Le reazioni nei confronti dei genitori, però, sono moderate in confronto al loro atteggiamento verso i filtri scolastici e altri dispositivi di bloccaggio.

Gli adolescenti intervistati avevano la sensazione di non essere degni di fiducia in questa situazione quasi da panopticon. Apprezzavano gli spazi in rete dei social per la visibilità che offrivano ma si sottraevano al monitoraggio.

Per Marwick è importante comprendere quello che succede davvero sui social network. Per questo ribadisce che quando gli utenti esaminano i contenuti caricati da altri e i propri contenuti attraverso gli occhi di altri, si tratta di sorveglianza.

Pur riconoscendo che questa è una variante di interpretazioni più classiche della sorveglianza – in termini di potere, gerarchia e reciprocità –, in fin dei conti si tratta sempre di sorveglianza. Le differenze sociali contribuiscono ogni giorno alle micro-relazioni di potere, i ruoli sociali si alterano e le persone vengono incluse ed escluse dai network attraverso una condivisione o un sequestro deliberato di informazioni.

Come mostrano Marwick e altri, gli utenti “monitorano le loro azioni digitali avendo in mente un pubblico”. Si tratta di un aspetto centrale per l’immaginario della sorveglianza, in questo caso. Le persone osservano gli altri e sono consapevoli di essere osservate. La maggior parte degli analisti concorda nel dire che quest’ultima situazione coincide con la netta sensazione che gli altri utenti stiano osservando.

Non sono necessariamente consapevoli di altri livelli di sorveglianza – principalmente commerciali – che li riguardano. Marwick esplora tre aree fondamentali: l’importanza di quello che Nippert-Eng chiama “lavoro sui confini” – come quello tra casa e lavoro –, nel quale i contesti crollano sui social network; lo stalking su Facebook, in cui gli utenti rovistano digitalmente nei materiali altrui per rafforzare la propria posizione o indebolire quella degli altri; e l’uso dei social per essere visti.

Gli effetti di tale sorveglianza non sono diretti come quelli della sorveglianza convenzionale, ma la sorveglianza sociale produce indubbiamente una forma di autosorveglianza sugli altri utenti.

Possiamo notare un’interiorizzazione dello sguardo sorvegliato nei cambiamenti di comportamento che avvengono quando ci si rende conto che sta avvenendo un’osservazione specifica. E talvolta i comportamenti vengono semplicemente rafforzati.

Come osserva una dei partecipanti al sondaggio di Marwick, Mei Xing, “con Facebook sai che in quel momento una parte dei tuoi amici sta facendo la stessa cosa che stai facendo tu”.

La sorveglianza sociale potrebbe sembrare piuttosto innocua finché non si prendono in considerazione i rapporti di potere manifesti all’interno dei social network. Questi diventano evidenti esaminando questioni come il genere, la razza o le intersezioni tra diverse tipologie di vulnerabilità, che nel contesto dei social vengono ingigantite, come mostrano chiaramente Valerie Steeves e Jane Bailey nei loro studi sulle giovani donne online.

Pur avvertendo il peso di un trattamento impari – “Ai ragazzi viene permesso tutto!” –, sembrano acconsentire allo sguardo di genere e all’ipervisibilità del corpo femminile confezionandola come una forma di “liberazione sessuale femminile”.

Queste intuizioni sono preziose poiché indicano altri modi in cui può verificarsi la sorveglianza, anche senza il coinvolgimento diretto di istituzioni o organizzazioni importanti. Il potere dello sguardo è comunque evidente a questo livello interpersonale, perché fa la differenza.

E gli utenti che controllano surrettiziamente gli altri, per esempio, sono pienamente consapevoli di questi rapporti di potere. Uno studio condotto sulla base di sondaggi internazionali ha dimostrato che fino al 30 per cento degli utenti dei social in Canada, negli USA e in Gran Bretagna non solo prendeva parte a questo “stalking”, ma immaginava che le persone che stavano osservando si sarebbero sentite in imbarazzo o si sarebbero arrabbiate sapendo di essere sorvegliate in questo modo.

Tuttavia, anche se comprendere la sorveglianza che si verifica in tanti ambiti esterni ai luoghi classici, convenzionali, è importantissimo, è fondamentale individuare cos’è che facilita questa sorveglianza.

La sorveglianza sociale viene condotta da utenti comuni dei social network ma è consentita da tecnologie di alto livello molto complesse, messe a disposizione dalle più grandi corporation del mondo, che usano tra le altre cose algoritmi, software per l’apprendimento automatico e tecnologie per il riconoscimento facciale.

Le opportunità di queste tipologie di sorveglianza arrivano dall’esterno, cioè non dagli utenti e dalla loro capacità di “guardare” o “rovistare” negli archivi altrui, bensì da organizzazioni che hanno obiettivi e modelli di business propri.

da “La cultura della sorveglianza. Come la società del controllo ci ha reso tutti controllori”, di David Lyon, Luiss University Press, 2020

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