Postare o non postareI social ci manipolano, lo sappiamo. Ma perché non riusciamo a impedirlo?

Le aziende del tech non vendono gli utenti, né i loro dati. Il vero prodotto è la loro capacità di cambiare, in modo impercettibile ma inesorabile, le nostre idee e visioni del mondo. Come mostra il documentario su Netflix “The Social Dilemma”, le conseguenze possono essere disastrose

La società è sempre più divisa, anzi polarizzata. Le notizie false sono ormai incontrollate (e con la crisi del coronavirus, anziché diminuire, sono cresciute) le teorie del complotto conquistano nuovi proseliti, gli scontri passano dal web alla realtà. Intanto le democrazie diventano più deboli e i giovani soffrono di problemi mentali. Tutto questo, spiega il documentario su Netflix “The Social Dilemma”, di Jeff Orlowsky, è una diretta conseguenza dei social network.

Non è una novità. Ma gli oltre 90 minuti di filmato, in cui si alternano 31 esperti del tech, compresi “profeti” come Jaron Lanier, l’autrice di “Capitalismo della sorveglianza” Shoshana Zuboff e, come è ovvio, l’ex ethical designer di Google Tristan Harris, ora considerato, in quanto presidente e fondatore del Center for Human Technology, «la coscienza della Silicon Valley», permettono di abbracciare la portata della questione, con tutte le sue premesse e le sue conseguenze.

Come si illustra bene, si tratta prima di tutto di un problema di design tecnologico: i social network sono studiati e progettati per creare dipendenza negli utenti. Sono meccanismi che sfruttano le vulnerabilità psicologiche insite nel cervello delle persone, approfittano delle sue debolezze (o meglio: caratteristiche) strutturali, ormai definite in milioni di anni di evoluzione, colgono gli attimi di noia e li cancellano a colpi di dopamina.

È anche un problema di consapevolezza. Nonostante gli allarmi e alla ormai fitta letteratura sui poteri dei social, la maggior parte degli utenti non si considera a rischio. Quasi sempre, per esempio, la percezione del tempo passato a scrollare le schermate è falsata, cioè sembra meno di quello che è. Una foto taggata è una forza irresistibile (chi mi ha taggato? Che foto è?), e perfino gli sviluppatori, cioè quegli stessi che hanno costruito i social e sanno come funzionano, non riescono a opporsi. Questo dà l’idea.

Soprattutto, però, è un problema di business model. «Se non paghi, vuol dire che il prodotto sei tu» è una espressione ormai trita e, si scopre, non del tutto vera. Nel caso dei social network i guadagni, come è noto, derivano dagli investitori che piazzano la pubblicità. Ma quello che i vari Facebook, Twitter e Tik Tok vendono non sono né gli utenti né i loro dati (anzi, se ne guardano bene). Vendono, piuttosto, «il graduale, sottile e impercettibile cambiamento che generano nel comportamento e nella percezione degli utenti», spiega Lanier. Quello è il vero prodotto, ed è anche il motivo per cui sono pericolosi.

I social offrono alle aziende «certezze», spiega la Zuboff, che si basano su modelli predittivi sempre più sofisticati perché basati su masse di dati enormi. Sanno cosa ci piace, quando ci piace, sanno prevedere cosa ci piacerà. Ma non solo: bombardando gli utenti con proposte, suggerimenti, post e tweet, generano cambiamenti. Plagiano, manipolano, modificano e direzionano: una missione affidata agli algoritmi, i quali hanno chiaro il punto di arrivo ma elaborano da soli il modo per raggiungerlo (è il concetto di intelligenza artificiale). Nemmeno chi li ha creati sa capire, nel profondo, cosa combinino.

Gli effetti sono gravi. Il documentario li passa in rassegna, ed è preoccupante: il tasso di suicidi e di atti autolesionistici tra i giovanissimi dopo il 2010-2011, per esempio, è cresciuto in modo esponenziale. Molti (soprattutto le ragazze) non reggono il continuo confronto con modelli di bellezza irrealistici, né riescono a resistere alla pressione sociale amplificata dall’uso continuo dello smartphone. In generale, la Generazione Z è meno disposta a rischiare: il crollo delle patenti si spiega anche così, così come quello dei corteggiamenti. Ne deriva un’incapacità di mettersi in gioco e di confrontarsi con gli altri e con la realtà.

Ma non solo: la continua proposizione di notizie false, che funzionano perché sensazionalistiche, aggressive e strane («La verità è noiosa»), ha contribuito a diffondere teorie del complotto, ha creato veri e propri eserciti anti 5G, fatto nascere comunità di no-vax, portato a conferenze di stralunati sostenitori della Terra piatta. Ma ha anche provocato esiti elettorali disastrosi (il 2016 è stato un anno campale), ha fornito strumenti a Paesi rivali per manipolare i processi democratici altrui (il caso russo, sempre nel 2016, è da manuale), ha indebolito l’essenza democratica del confronto.

In Myanmar le notizie false hanno permesso al regime di operare una pulizia etnica nei confronti dei Rohingya, mentre in ogni Paese del mondo gli eserciti di hater hanno provocato occasioni di scontro, purtroppo anche offline, tra diverse fazioni. La crisi del coronavirus ha solo accresciuto la possibilità di spargere falsità, contando sulla paura, sull’ignoranza, sull’ingenuità delle persone.

Come detto, non c’è niente di nuovo in tutto questo – tranne forse l’idea che nel breve periodo, come dice uno degli intervistati, la «guerra civile» sia uno scenario possibile. Nemmeno i conflitti, le fazioni, la diffidenza verso la scienza (il mondo no-vax, per esempio, precede Facebook e anche internet). Ma i social amplificano il loro messaggio, esasperano gli aspetti più sensazionalistici, facilitano la loro diffusione, incoraggiano la connessione tra profili simili. Il tutto per mantenere coinvolto (engaged, meglio) l’utente e riempire i suoi momenti di tedio.

L’unica vera debolezza di “The Social Dilemma” è che, dopo l’analisi, non fornisce la soluzione. O meglio, la accenna soltanto. Serve più regolamentazione: cioè interventi delle autorità, paletti da mettere, limitazioni al modello di business. Basterà davvero? E quali sarebbero? E – a parte le ovvie difficoltà di operare di fronte alla pressione delle lobby del tech – è in grado la politica di comprendere le giuste direzioni?

Mark Zuckerberg, il fondatore di Facebook, ha già proposto una forma di auto-regolamentazione («Ci pensiamo noi», che è la cosa peggiore, perché si sa, non lo faranno), approfittando della velocità con cui l’innovazione sovrasta ogni tentativo di irregimentarla e, anche la capacità di adattamento della mente umana. «Il genio è uscito dalla lampada e non si può più rimetterlo dentro», si dice. Da noi sono i buoi che escono dalla stalla, ma cambia poco. Resta da capire cosa intenda Harris quando accenna a una «tecnologia che metta al centro l’uomo», o faccia caso all’etica. Sono questioni spinose che chiederanno tempo e riflessione.

Intanto le previsioni sul breve sono inquietanti. Le speranze poche. Forse la consapevolezza del disastro (e delle responsabilità da attribuire ai giganti del tech) potrà aiutare, ma non salvare. E mentre si attendono soluzioni, l’accettazione della noia, da utenti, rimane l’unica forma di resistenza praticabile.