Professione mitomaneLa tristezza dell’essere umano che vuol far sapere a tutti dov’era l’11 settembre 2001

La sindrome narcisistica esisteva prima di Facebook. I social non hanno creato un’antropologia, l’hanno solo incrementata. Come sempre l’aveva già anticipato Arbasino

Dov’eri l’undici settembre del 2001? Dov’eri il 2 agosto del 1980? Dov’eri quand’hanno sparato al Papa, rapito Moro, ammazzato John Lennon?

Una volta a sentire le tue dissertazioni sul rapporto tra te e la Storia – quello che Arbasino in un paese senza avrebbe chiamato «discorzo» e qui chiameremo «penzierini» – erano amici disinteressati, gli stessi ai quali toccava il supplizio della proiezione delle diapositive al ritorno dal tuo viaggio alle Maldive.

Adesso, proprio come le tue foto dalle Maldive le spolliciano disinteressati spettatori di Instagram nei minuti in cui stanno seduti sul cesso, i tuoi penzierini su dov’eri e cosa facevi mentre crollavano le Torri Gemelle toccano a tutti noi, spolliciatori annoiati di Twitter.

Ieri qualcuno pubblicava irridendola una signora che, in un penzierino su Facebook, aveva spiegato che certo, lei ricordava dove si trovava l’11 settembre, ma soprattutto ricordava che il pensiero era corso subito alla figlia che studiava in Umbria.

Non sapeva, lo sbeffeggiatore, che la signora stava citando Arbasino (sempre lui), che prima dei social e delle commemorazioni collettive, prima del primo anniversario dell’attentato (ieri era il diciannovesimo, non oso immaginare il profluvio di penzierini per il ventesimo, i numeri tondi ci rendono sempre epici), già sapeva.

In Rap 2, pubblicato a marzo del 2002, egli verseggiava: «…Un morto? Seimila morti?… Ma/ Ciò che conta veramente/ È soprattutto il turbamento/ Dell’IO, che non vuol star zitto un momento./ E non ci risparmia il suo birignao./ Sempre più epocale, umorale,/ Viscerale, globale e non-globale./…Ahhh, se sapeste cosa stavo facendo/ E pensando in quell’istante/ E che cosa mi è venuto in mente/ Proprio appunto in quell’attimo!/ IO, lì, con un creativo di nuovo tipo!…/ IO, e in tv la pubblicità col topo!…/ IO, la strage, e la pappa del pupo!…/ IO, le bombe, e tutte le telefonate dopo!…».

Se un giorno qualcuno mi chiedesse di dimostrare che i social non hanno creato un’antropologia, l’hanno solo anabolizzata, io citerei un Arbasino di cinque anni prima che i social esistessero (e almeno dieci prima che diventassero imprescindibilità delle nostre giornate e palcoscenico d’elezione delle nostre mitomanie).

C’è un aneddoto che se hai vissuto più di sei mesi a Roma frequentando il sottobosco dello spettacolo prima o poi qualcuno ti ha raccontato. Riguarda Patty Pravo e Jimi Hendrix e una Cinquecento su cui i due sarebbero saliti uscendo dal Piper. Chi lo racconta si piazza sempre tra i passeggeri dell’automobile. Che, se eravate vivi nel Novecento lo sapete, non era particolarmente capiente. Ma, anche fosse stata una limousine, quanta gente sarebbe potuta entrare nel suo abitacolo? Di sicuro meno delle decine di persone che nei decenni m’hanno giurato d’esserci state.

Oppure c’è quella storia della conferenza stampa milanese dei R.E.M. Nel nuovo disco c’era una canzone intitolata Leaving New York. Raccontano che un giornalista, confondendo «to leave», lasciare, e «to live», vivere, avesse chiesto a Michael Stipe se fosse vero che, come diceva nella canzone, vivere a New York non fosse facile. (I giornalisti italiani non sanno aprire e chiudere le vocali in italiano, ma non perdonano che un italiano parli inglese come un italiano). La scena me l’avranno raccontata in cento, e tutti giurando d’averla sentita con le loro orecchie. Forse era la conferenza stampa più affollata di tutti i tempi.

Se vogliamo essere al centro della storia con Patty Pravo o con Michael Stipe, figuriamoci con le stragi. Una mia mitomane preferita tempo fa raccontò, in un programma televisivo, della sua residenza newyorkese, nel settembre 2001, per frequentare un corso d’inglese. Lei che, ma tu pensa che coincidenza, la mattina dell’11 settembre, andava di persona a prenotare il ristorante in cima a una delle Torri Gemelle, prima di correre a lezione. La mamma che le telefonava sul cellulare. Il rumore. Mamma mi sta crollando la torre in testa. Niente tornava, nel suo racconto. Non il ristorante che vai a prenotare di persona, non le lezioni che evidentemente iniziavano a orari romani, non la mamma che ti chiama sul cellulare, con quel che costava ricevere chiamate all’estero nel 2001. Il giornalista annuiva, compiaciuto dei bellissimi penzierini tutti «IO, la strage, e la pappa del pupo», e determinato a non interrompere con la verità una buona storia.

Il 2 agosto scorso un sacco di gente ha fatto post sul quarantennale della strage alla stazione di Bologna. Se a farli era qualcuno di famoso, sotto c’erano migliaia di commenti, tutti riassumibili in «e pensare che quel giorno dovevo partire per Pescara/Bolzano/Barletta proprio alle 10, ma all’ultimo momento ho cambiato orario/ho deciso d’andare in macchina/m’è venuta una colica. Sono vivo per miracolo, puntesclamativo». A credere ai penzierini su Facebook, il primo agosto del 1980 è stata la data in cui la biglietteria della stazione di Bologna ha avuto il più alto numero di richieste di rimborso. Tutti preveggenti, tutti che un po’ se lo sentivano, tutti che hanno sfiorato la Storia.

La sindrome esisteva prima di Facebook, e lo so perché il 2 agosto 1980 mia madre e io eravamo al Conero, e mio padre era a Bologna. A letto a dormire, come tutte le mattine di tutti i weekend della sua vita. Nel fine-settimana non si svegliava mai prima dell’ora di pranzo. Quando si svegliava andava a prendere i giornali e, poiché l’edicola davanti casa il sabato e la domenica chiudeva all’una, a volte andava in stazione, una delle poche edicole sempre aperte in quegli anni in cui il commercio non si adeguava ai nostri capricci. Nessuno era particolarmente preoccupato, quando la notizia arrivò in tarda mattinata. Ci si chiese se fosse il caso di chiamare a casa, svegliandolo e prendendosi certamente degli insulti.

Ma questo non impedì a nessuno della mia famiglia, nei decenni successivi, di mitomaneggiare che mio padre per un soffio non era rimasto vittima dell’attentato, e che noi eravamo distanti, senza rassicurazioni, terrorizzate. Eravamo mitomani già allora, ma non avevamo i social per farlo sapere al mondo, cos’avessimo provato quando «IO, le bombe, e tutte le telefonate dopo».

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