Non bisogna farsi ingannare: è vero che nel “Teatro dei sogni”, il nuovo (ventesimo) romanzo di Andrea De Carlo, pubblicato da La Nave di Teseo, si parla di un teatro antico italico, di una trasmissione televisiva e di una contesa tra politici. Ma è solo un pretesto, quasi una scusa. I veri protagonisti non sono la giornalista d’assalto, con cui pure si apre il libro. Né il fascinoso e beffardo archeologo, che la salverà da un soffocamento provocato da una brioche finendo suo malgrado in una diretta Instagram.
Non sono neppure i vertici delle istituzioni locali, quelli che di fronte alla notizia della scoperta (straordinaria) che scuote l’immaginario e nordico paesino di Cosmarate, provincia di Suverso, cioè “l’antico teatro italico”, appunto, cercano di contenderselo per accrescere fama e meriti politici.
Tutt’altro: de nobis fabula narratur, avrebbe detto Orazio. È di noi che si parla: De Carlo allestisce una scena surreale (è questo il vero teatro), vi fa salire e recitare personaggi improbabili, li si fa muovere spinti da ambizioni peregrine e insicurezze ancestrali (i sogni, appunto) e alla fine svela l’inganno. Quello che avete letto è l’Italia contemporanea. È tutto un tiatro, avrebbe detto Camilleri, sorridendo sornione.
Sorpresi? Non si dovrebbe. Il romanzo è a chiave, come si dice. Ma si tratta di una chiave facilissima da individuare: la mette lì, alla portata di tutti. Si riconosce il critico televisivo che scrive sui giornali, si capisce subito a chi pensa quando descrive la conduttrice di “Tutto qui!”, cui luccicano gli occhi quando racconta storie pietose – ma solo perché «guarda a lungo i riflettori» – e soprattutto non è per nulla un mistero a quale partito pensi De Carlo quando parla del Rivolgimento, «una forza politica post-ideologica, né di destra né di sinistra, aperta a tutti».
Quale sarà? Un altro indizio: chi è dentro, «è stato catapultato a Roma nei palazzi del potere senza avere la minima idea di cosa farci», si tratta di «soggetti che prima di essere eletti non avevano neanche un lavoro, o se ce l’avevano non brillavano certo», e cioè «una masnada di incompetenti senza arte né parte e pure parecchio arroganti perché hanno vinto la lotteria elettorale a Roma».
Il tocco geniale è la ® commerciale. Perché è un partito dal marchio registrato, dove le figure di spicco sono «il Sante Ciuparo, che è ministro della Giustizia e non sarebbe neanche qualificato a fare l’usciere nel tribunale di Benevento, con quel sorriso da mezzo rintronato. O il Gennaro Zecchillo, che fa il ministro degli Esteri e non ha mai lavorato un giorno in vita sua e non sa niente di niente al mondo, a parte recitare discorsetti con lo sguardo fisso e i gesti da burattino. Ogni tanto si fissano con la sigla di qualche progetto internazionale che magari ha messo in allarme ingiustificato qualche gruppetto locale di superstiziosi e fanatici. Il MUR, il CUR, la SRA, li fanno diventare suoni terrificanti e giurano e spergiurano che non li faranno mai passare, anche se porterebbero soldi nelle casse dello stato e sarebbero utili alla gente». Ritratto perfetto.
E che dire dell’Unione Nazionale? Una volta era solo Settentrionale, ma ora ha un segretario «bugiardo come pochi, scansafatiche di prima categoria tranne quando si tratta di andare in giro per l’Italia ad arringare le folle». Chi sarà? «Vigliaccone, anche, fa la voce grossa e un attimo dopo piagnucola da vittima, lancia il sasso e nasconde la mano».
Le carte, insomma, sono coperte per finta: tra Movimenti (pardon, Rivolgimenti) e Leghe (ripardon, Unioni) il gioco è chiaro. Il lettore diventa complice, capisce al volo i riferimenti e da spettatore della realtà in cui vive segue il filo del racconto, per vedere dove va a parare lo spettacolo. Ma è un circolo: come si è detto, De Carlo ha messo in scena la realtà e usa la storia di un antico teatro per parlare dei sogni di oggi.
Alla fine il disvelamento delle ultime pagine non è soltanto una enorme beffa, una pacca sulla fronte, una vergogna. Ma attenzione: è anche un messaggio al lettore. Davvero avete creduto a quello che dicevano? Davvero ci siete cascati, ascoltando le loro promesse? Si ride allora senza amarezza. Perché il sollievo di non aver prestato fede a quelle favole (ancora: ai sogni) prevale.