Non era una battuta. Non era nemmeno un voler aizzare la polemica. Ma un dato di realtà: «Ci fosse stato un candidato solido questo problema non si sarebbe posto – ha detto Carlo Calenda nel primo giorno da candidato sindaco di Roma – penso che sarebbe più facile per il Partito democratico appoggiare uno dei loro, ma uno dei loro non c’è. Allora deve accontentarsi». In fondo, è proprio così.
Il candidato sindaco di Roma sa di toccare dove al Partito democratico fa più male: il Nazareno non ha un nome forte, senza offesa per Monica Cirinnà, Giovanni Caudo e gli altri “locali” che hanno avanzato la propria candidatura.
Se ci fossero stato Sassoli o Gentiloni, Calenda non sarebbe sceso in campo. Solo Nicola Zingaretti potrebbe sbarrargli la strada, ma lui non parla, lascia circolare le voci e le fa smentire dal solerte ufficio stampa, giocando a mosca cieca in una vicenda in cui non c’è da scherzare: e comunque ormai tutti hanno capito che non sarebbe una grande idea lasciare la Regione assalita dal covid-19 con violenza e velocità sinora sconosciute, un nemico di fronte al quale il Lazio pare in affanno (la vergogna dei drive-in è sotto gli occhi di tutti). Zinga resta dov’è.
Dunque, piaccia o non piaccia, Calenda per ora è l’unico cavaliere progressista partito lancia in testa alla conquista del Campidoglio. Obiettivamente è partito presto, ha tutto il tempo per costruire alleanze, squadra e programmi.
Un importante dirigente vicino a Zingaretti ci ha detto che forse è partito troppo presto, si voterà a maggio o giugno e Calenda dovrà reggere sette-otto mesi rischiando di essere già “vecchio” per le elezioni. Intanto lui è al lavoro. E leggendo bene le notizie c’è già una novità.
Contrariamente al suo carattere polemico e da one man show, il leader di Azione sta cercando di dare di sé e della sua campagna un’immagine aperta. Interessante a questo riguardo lo scambio su Twitter (e dove sennò?) con Fabrizio Barca, esponente della sinistra-sinistra, economista che da anni propugna soluzioni molto radicali soprattutto sul tema a lui più caro, quello della lotta alle disuguaglianze e che molti avrebbero voluto come candidato sindaco, tanto che era stato testato, e con buoni risultati, da Alessandra Ghisleri.
A Barca, che lo stuzzicava chiedendogli di chiarire le sue proposte, Calenda ha aperto subito le porte addirittura alludendo a un «ticket», e comunque lavorando «spalla a spalla». Ed è certo che il candidato sindaco promuoverà uno scouting a larghissimo raggio fra quelle competenze e energie “dal basso” che possano dare una mano per restituire Roma alla sua dignità smarrita nel quinquennio grillino.
Se questo è l’approccio calendiano, rimane però ancora scoperto il nervo delle primarie. A parte la realistica perplessità sulla mancanza di condizioni per organizzare un mega-appuntamento in éra covid, il no dell’ex ministro alle primarie è un no tutto politico, dovuto al rifiuto di auto-appiccicarsi l’etichetta di un candidato del Partito democratico fra altri candidati del Partito democratico, di rimanere cioè invischiato in una competizione tutta interna ai dem, in particolare in una sfida contro Cirinnà (che è la candidata di Bettini e anche di Zingaretti).
Mentre l’idea del candidato è opposta, svincolarsi da partiti e schieramenti e costruire una novità macroniana partendo dalla Capitale. Il problema di non facile soluzione è realizzare questa aspirazione senza andare a sbattere contro il Partito democratico (mentre per quanto riguarda i gruppi della sinistra radicale Calenda non si fa illusioni: d’altronde il bombardamento da quella parte è già cominciato, per non parlare della paranoica ostilità del Fatto Quotidiano).
Si tratta dunque di far quadrare un cerchio, un’impresa che sarà possibile solo se tutte le parti in causa – come si dice nelle controversie internazionali – smusseranno gli angoli. Perché diversamente si sussisterebbe al più clamoroso suicidio del centrosinistra, andare al primo turno con Calenda, Cirinnà, Raggi e la destra. Rimescolando tutti i giochi.