Non credo che il paese abbia mai avuto un leader di primo piano più inadeguato di Luigi Di Maio, salvo Giuseppe Conte ovviamente.
L’acrobatica intervista alla Stampa del ministro egli Esteri ne è un esempio lampante. Dopo aver liquidato Davide Casaleggio come una specie di partita iva milanese che, passando lì per caso, «ha progettato i nostri sistemi informatici», Di Maio ha sproloquiato sui Cinquestelle dentro il Partito popolare europeo, cioè alleati di Berlusconi e Merkel in una specie di supertombola del trasformismo globale, avendo prima abbracciato la Lega, poi il partito di Bibbiano e prossimamente Berlusconi e Merkel sempre in nome del «siamo il M5s, la nostra identità è chiara. Nessuno di noi vuole che diventi un partito». Meglio rimanere una barzelletta.
Secondo Di Maio, in tanti «vedono in noi una forza moderata e innovativa capace di unire l’Italia e a sua volta l’Europa». Mi piacerebbe conoscere i nomi di questi che vedono nei Cinquestelle anti euro e anti studio una «forza moderata e innovativa», addirittura «capace di unire l’Italia e a sua volta l’Europa».
Il capolavoro però è un altro, quando Andrea Malaguti gli ha chiesto se «ha ancora senso dire no al Mes» e lo stravagante ha risposto con un «ma perché continuare a parlare del Mes se ancora dobbiamo iniziare a spendere i soldi del recovery», senza immaginare che l’intervistatore schiacciasse la palla con un «proprio per questo, il Mes è già disponibile».
Forse è il caso di ripeterlo, vista l’insensatezza della posizione di Di Maio e del governo: questi statisti e i loro sistemi informatici aspettano i soldi del recovery fund, pur non avendo progetti seri e strategici per spenderli, sapendo bene che non arriveranno prima della seconda metà del 2021. E, intanto, per antieuropeismo ideologico rifiutano di accedere ai prestiti del Meccanismo di stabilità per oltre trenta miliardi a tasso pressoché zero già a disposizione per ricostruire il sistema sanitario nazionale che in larghe parti d’Italia è inesistente. In Sicilia, serbatoio di voti grillini, si usa dire che il miglior ospedale dell’isola si trova Punta Raisi, dove si può comodamente prendere l’aereo per andare a curarsi altrove. A questo punto potrebbe essere a carico del Mes anche l’Alitalia, ma meglio non dirlo a Di Maio che poi magari ci crede davvero e brucia un’altra decina di miliardi per lo show dei Navigator from Mississippi.
Cercare un filo logico nelle cose che dicono Di Maio e i suoi fratelli è inutile, invece è utile sottolineare le tante cose pericolose che professano. Nell‘intervista a Malaguti della Stampa, per una volta non ha fatto cenno al superamento dei parlamenti, all’imposizione del vincolo di mandato e ad altri analfabetismi democratici, ma ha dato una risposta che conferma quanto scriviamo da tempo su questo giornale, mentre il Partito democratico si gira dall’altra parte e fa finta di non accorgersi che sia i Cinquestelle di lotta alla Di Battista sia quelli di governo alla Conte e Di Maio stanno tutti dalla parte di Donald Trump.
«Ministro, Trump o Biden?», gli ha chiesto La Stampa. E Di Maio ha risposto: «Gli Stati Uniti, innanzitutto. Poi per esperienza personale posso dirle che con l’amministrazione Trump si lavora molto bene e con Mike Pompeo si è instaurato un legame di amicizia».
Dopo Conte che ha spiegato che per l’Italia non cambia niente se vince Trump o Biden e mentre i volenterosi complici del populismo fanno gli spiritosi sulla conversione democratica di questi masanielli in grisaglia, arriva ancora una volta la conferma che i Cinquestelle sono gli unici, con la destra parafascista, a non riconoscere la portata eversiva, corrotta e violenta della presidenza Trump.
Non solo: assieme a Trump e alla destra parafascista, i Cinquestelle sono anche gli unici a non riconoscere la portata eversiva, corrotta e violenta della presidenza Putin.
Su questo non si lasciano andare a nessun trasformismo, la loro «identità è chiara» davvero. Con tanti saluti alla bufala della «forza moderata e innovativa capace di unire l’Italia e a sua volta l’Europa».