In molte città del nord Europa è frequente imbattersi nella statua del celebre pifferaio della cittadina di Hamelin, oggi Hameln in Bassa Sassonia, la cui favola fu narrata dai fratelli Grimm quale trascrizione di antiche leggende del XIII secolo. La vicenda è collegata ad una delle tante epidemia cui l’Umanità è stata chiamata a far fronte fin dai tempi più antichi e che ne percorrono periodicamente la storia.
Un’intima relazione sembra legare i topi, la peste ed i pifferai: i primi, com’è noto, ospitano le pulci contenenti il bacillo yersinia pestis, come il pipistrello, una sorta di topo volante è il veicolo di molti Covid compreso quello che ora ci affligge; la seconda è caratterizzata dall’estrema e rapida virulenza fisica e spirituale del morbo, i terzi compaiono quasi contemporaneamente e fanno spesso più danni degli inconsapevoli altri esseri viventi all’origine del processo infettivo.
Sembra proprio che dei tre attori in questione la scena del mondo non si sia mai liberata: i topi non entrano più a contatto degli esseri umani ma coabitano con essi nelle situazioni di maggior degrado nelle sterminate periferie del mondo e, al pari degli scarafaggi, sono endemici anche nelle grandi città; le epidemie non hanno mai smesso di flagellare il terzo mondo non risparmiando il primo e il secondo come nel caso dell’epatite C e dell’AIDS; i pifferai assumono sembianze diverse ma parlano ovunque il medesimo linguaggio e fanno proseliti tra i meno colti, i più bisognosi, i più rancorosi e disperati di ogni società.
Soffiando nel proprio strumento i pifferai attirano i topi promettendo di allontanarli dagli umani ma di fatto li convocano ed essi emergono dalle fogne e da altri recessi, diffondendo intanto il contagio dell’irrazionalità e risvegliando gli istinti più ancestrali che albergano anche nelle società più evolute dove, in condizioni di normalità, sono tenuti a bada, a stento, da regole e consapevolezze di vario livello.
Commanders in Chief, Caudillos, finti Imam, avvocati del popolo, Capitani e Nonne del Corsaro Nero, suonano la propria stridula disarmonia che anestetizza le coscienze mentre eccita i sentimenti peggiori, mettendo alla berlina avversari più saggi e prudenti, ridicolizzandone ogni argomento razionale e spingendo i topi a seminare il terrore ed a perpetuare le ritorsioni più abbiette.
L’analogia tra uomini e topi ha trovato la sua massima consacrazione del romanzo omonimo scritto da John Steinbeck nel 1937. Vi si descrive il livello di bestialità che gli essere umani possono raggiungere quando le condizioni economiche e sociali di una comunità scendono sotto il livello di guardia, come accadde durante la grande crisi del 1929 che dagli Stati Uniti si estese all’Europa, generando le paure da cui sorsero i fascismi del XX secolo cui anche da oltre oceano si guardò con palese simpatia in chiave anticomunista, almeno sino alla metà degli anni ’30.
I topi uccidono l’ultimo discendente della famiglia Buendia e trascinandone via il corpicino, chiudono anche simbolicamente Cent’anni di solitudine, il capolavoro di Gabriel Garcia Marquez, esponente di quel realismo magico di cui ho scritto a proposito di Italo Calvino che pure non fu tenero con il mondo di Macondo.
E topi evoca Albert Camus ne La Peste, sottolineandone la permanenza sotterranea anche nei momenti di apparente vittoria sul morbo che diffondono. Alla fine del romanzo il medico francese Bernard Rieux protagonista e narratore delle vicende vissute nella città di Orano, traccia un resoconto della battaglia vinta ma non la cronaca di una vittoria definitiva:
«Egli sapeva, infatti, quello che ignorava la folla e che si può leggere nei libri, ossia che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decine di anni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere e che forse sarebbe venuto il giorno in cui la peste avrebbe svegliato i suoi topi per mandarli a morire in una città felice». Camus parla di topi ma la sua mente è rivolta ai lati più oscuri e latenti della natura umana che periodicamente emergono dal buio.
Di segno opposto la malinconica Graphic Novel di Art Spiegelman, “Maus” Special Award del Premio Pulitzer nel 1992, pubblicata nel 1989 da Milano Libri; narra dell’Olocausto e, attribuendo ai personaggi le fattezze degli animali, assegna agli ebrei quelle dei topi cacciati dai gatti nazisti. Così lo ha commentato Umberto Eco: «Maus è una storia splendida. Ti prende e non ti lascia più. Quando due di questi topini parlano d’amore, ci si commuove, quando soffrono si piange. A poco a poco si entra in questo linguaggio di vecchia famiglia dell’Europa orientale, in questi piccoli discorsi fatti di sofferenze, umorismo, beghe quotidiane, si è presi dal ritmo lento e incantatorio, e quando il libro è finito, si attende il seguito con disperata nostalgia di essere stati esclusi da un universo magico».
Del medesimo avviso anche Moni Ovadia intervistato da Rai Cultura: «Il lavoro di Art Spiegelman è straordinario, perché la vicenda riesce a coniugarsi mirabilmente col tratto. Quest’idea del topo antropomorfo è una scelta geniale, perché il topo viene visto come una cosa sinistra e minacciosa. Peraltro il rapporto tra gatto e topo – questo gioco così crudele – incarna alla perfezione il tipo di relazione esistente. Spiegelman è stato straordinario anche nella scelta del linguaggio e nella costruzione della storia».
Nel bene e nel male il portato simbolico dei topi ha sempre rappresentato un vero e proprio fondamento psicoanalitico. Nel quinto volume dei Casi Clinici, Sigmund Freud descrive così il paziente di cui aveva fatto emergere le paure inconsce: «L’Uomo dei Topi aveva sviluppato il timore di un supplizio orientale, descrittogli dal suo Capitano, un militare particolarmente amante delle crudeltà, in cui alcuni topi vengono indotti a farsi strada nell’animo di un criminale. La sua ossessione era che questa punizione avrebbe potuto avere come vittima sia la donna che avrebbe sposato, sia suo padre che era morto da anni».
La filosofa genovese Cristina Allegretti in un articolo del 2002 ha così riassunto la fenomenologia del topo: «Animale dell’anima, figura ctonia, simbolo dei poteri dell’oscurità, del movimento incessante, dell’agitazione insensata» ricordando che «nella religione cristiana è simbolo del diavolo, è il divoratore delle provviste. Santa Gertrude aveva il compito di proteggere da tale sventura, il topo è raffigurato mentre morde le radici dell’albero della vita. Animale impuro, vive anche nelle fogne, si ciba di spazzatura, resta ai limiti del sociale e, restituito con queste caratteristiche alla dimensione interiore e psicologica dell’uomo, ne incarna assai intuitivamente, il simbolo dell’esilio dalla dialettica umana. Il topo è un roditore, vive nell’oscurità. Animale schivo, nel passato gli venivano attribuite facoltà demoniache e profetiche. Si organizza in gruppi e lo si può vedere come un simbolo che rode la coscienza del singolo, messaggero della necessità di aprirsi; era visto nel passato anche come portatore di sventura a causa del suo rosicchiare oggetti culturali: come libri e così via»
Di un solo topo sono state celebrate le gesta in tutto il mondo, umanizzandone sembianze e virtù quasi ad esorcizzare il terrore della specie da cui traeva origine. Ma è americano ed aristotelico, sta dalla parte dei buoni, si chiama Mickey Mouse e voterebbe per Joe Biden. Gli ho reso il dovuto omaggio qualche mese fa.
Incautamente invocati a furor di popolo e sovente eletti in modo democratico, i pifferai circondati dai propri topi vincono quasi sempre perché parlano ai più e con voce più alta di coloro che fanno appello alla saggezza prediligendo i toni più pacati che non hanno mai infiammano le masse, soprattutto nelle epoche di grande precarietà. A volte vengono sconfitti ma solo dopo aver causato sofferenze immani e lasciato cicatrici profonde nella Storia.
È accaduto e potrebbe ancora accadere negli Stati Uniti con Donald Trump della cui rimonta nei sondaggi si discute in queste ore, accade sotto i nostri occhi nella Turchia di Recet Tayyp Erdogan che brucia le navi consumando un’insanabile frattura con la Francia ed il mondo occidentale mentre raduna i propri topi fondamentalisti all’ombra dei minareti, alligna nell’Europa orientale e cresce più di quanto si immagini nell’Italia prostrata dalla pandemia, in cui un governo di pifferai sempre più delegittimati, imbelle e profondamente diviso, è ormai assediato dalla piazza affamata ed impaurita il cui spettacolo ogni sera entra nelle case di tutti gli italiani, insieme all’ormai abusata liturgia di proclami monocorde, privi della pur minima autocritica circa gli errori e le omissioni dei mesi scorsi, da parte di un Premier che scivola giorno dopo giorno nel gradimento popolare.
Insufficienti appaiono i sommessi richiami, anche i più alti, all’unità e alla solidarietà, le promesse di ristori economici che molti non vedranno mai, l’insipienza di promettere a tutti i settori che ogni cosa tornerà come prima, piuttosto che predisporre i piani per preparare ad un mondo che non sarà più lo stesso.
Un mondo che vedrà sparire lavori e sorgerne di altri e in cui i modelli edonistici con cui sono cresciuti i nostri giovani, esaminati apertamente, pur con toni diversi, soltanto da Paolo Crepet e da Umberto Galimberti, apparterranno al passato e dovranno essere sostituiti da nuove ed inedite modalità di studiare, di lavorare, di servire il Paese, di trascorrere il tempo libero e, probabilmente, di esercitare il proprio diritto ad essere rappresentati per potere essere governati.
Davanti a tale scenario e nella direzione opposta l’altro pifferaio non offre soluzioni alternative, gli è sufficiente ottenere intanto consenso, alimentando tra i propri seguaci il risentimento derivante dalla delusione, dall’essere stati manipolati, dall’essere stati presi in giro.
Quando e se gli toccherà di detenere il potere, avrà per anni l’alibi del disastro ereditato da chi lo ha preceduto e predisporrà nel frattempo sistemi di gestione della società apparentemente rivolti al miglioramento della sicurezza e della vita collettiva ma, in realtà, finalizzati al controllo delle opinioni ed alla repressione del dissenso che bollerà sempre come pericoloso ritorno al passato da cui egli ha liberato il popolo. E chi scrive ritiene, non da oggi, che nell’Italia dell’eterno trasformismo gli alleati non gli mancheranno.
L’antico brocardo latino recita «Primum vivere, deide philosophari» unito al più recente Erst kommt das Fressen, dann kommt die Moral (prima viene il mangiare, poi viene la morale) dichiarato da Bertolt Brecht nell’Opera da Tre soldi, rappresentano il motto dei pragmatici di tutti i tempi lanciato in faccia a chi pone il ragionamento prima dell’azione istintiva, la riflessione come antidoto all’improvvisazione, il rigore del logos contro l’anarchia del pathos.
Ben strano convincimento quando si pensi che le più grandi conquiste della civiltà si devono a quanti hanno anteposto la libertà all’esistenza, sacrificando per primi la propria per garantire quella degli altri. Un mundus inversus sembra stare per essere ridisegnato in forma di bolla sul mappamondo del terzo millennio. Come nel romanzo di Stephen King del 2009, The Dome, in cui sulla cittadina di Chester’s Mile nel Maine cala all’improvviso una cupola trasparente tranciando tutto ciò che si trova lungo il suo perimetro, come una ghigliottina.
Nell’impossibilità di scalfirla, i prigionieri della cupola, mostrano l’intera gamma dei sentimenti umani, cominciano ad assumere comportamenti irrazionali e, a poco a poco, a suicidarsi. Il finale, a sorpresa, sarà il premio per chi vorrà affrontare le milleduecento pagine che compongono il libro.
Ai pifferai di ieri e di oggi, di lotta o di governo, piacciono le bolle evanescenti, gli orti conclusi del pensiero unico in cui risuona soltanto il richiamo del proprio strumento fatale, le definizioni semplificate ed ultimative che non ammettono la speranza di scenari diversi presentati come minacciosi ed eversivi della “pace sociale” in cui “uno vale uno” tranne qualcuno.
Perché le masse li amano e a lungo li sostengono? Una delle prime risposte sistematiche è stata data dall’antropologo ed etnologo francese Gustave Le Bon, considerato il fondatore della Psicologia Sociale. La sua opera principale “Psicologia delle folle” fu il testo preferito dai dittatori del ’900 che spesso ne ricopiarono, come Adolf Hitler in Mein Kampf, ampi stralci, trovandovi ogni utile spunto per la costruzione della moderna propaganda politica.
«Dal solo fatto di essere parte di una folla, un uomo discende da generazioni su una scala di civiltà. Individualmente, potrebbe essere un uomo civilizzato; nella folla diviene “barbaro” in preda all’istinto. Possiede la spontaneità, la violenza, la ferocità, e l’entusiasmo e l’eroismo dei primitivi, tendente ad assomigliare dalla facilità con cui si lascia impressionare dalle parole e dalle immagini — che sarebbe del tutto priva di azione se messa in atto da ogni singolo individuo isolato — indotta a commettere atti contrari ai suoi interessi più ovvi e alle migliori abitudini. Un individuo nella folla è un granello di sabbia fra altri granelli di sabbia, mossi dalla volontà del vento».
Il pifferaio ama le masse e ne è riamato con sentimenti ambivalenti che vanno dalla ricerca di protezione alla comoda rinuncia al travaglio dell’elaborazione personale, dall’assunzione di responsabilità individuali al riconoscimento di qualità non comuni che ne favoriscono sovente il pericoloso culto della personalità declinato dalla comunicazione con strumenti di crescente potenza che ogni epoca ha posto a disposizione.
In alcune fasi storiche è quasi impossibile interromperne l’influenza. Finché durano le condizioni che lo hanno generato, il suo potere è al sicuro ed è per tale motivo che egli esercita ben dosate pressioni sul pedale del freno e su quello dell’acceleratore, distribuendo benessere ma condizionandone l’erogazione in cambio di fedeltà e di coerenza dei comportamenti collettivi con la propria visione del mondo.
I più pericolosi tra loro non sono solo quelli palesemente autoritari ma i più seduttivi, curiali e manipolatori in grado di trasformare ogni proprio seguace in un prolungamento di se stesso che pensa di agire autonomamente e si erge a sua difesa come per quella propria o dei familiari. Entrambi, comunque, si premurano di cancellare della memoria collettiva ogni ricordo di proprie precedenti scelte, atteggiamenti e schieramenti politici di cui dovrebbero rendere conto, vergognandosene.
L’indicazione del nemico viene in soccorso a questa strategia di distrazione di massa, è la sua risorsa più potente e giustifica la mobilitazione, la delazione, la contrapposizione e il controllo reciproco fin dentro il nucleo familiare come ho scritto il 14 ottobre scorso.
Uno degli uomini politici meno colti dell’attuale stagione italiana ha recentemente preso le difese dei teatri nei quali c’è motivo di ritenere che non abbia mai messo piede, se non per manifestazioni del proprio partito. Chiusi inopinatamente con il recente DPCM dopo avere indotto i gestori ad investire in mille accorgimenti per evitare il contagio e tarpando così le ali del ministro Dario Franceschini e ad ai suoi sogni di gloria, gli operatori teatrali hanno fatto appello al Maestro Riccardo Muti che non ha esitato a manifestare il proprio pensiero al riguardo.
Un ispirato presidente del Consiglio ha replicato «Le Sue riflessioni mi toccano profondamente, e non credo abbiano lasciato indifferenti i lettori. Lei ha ragione: la decisione di chiudere le sale da concerto e i teatri è oggettivamente “grave”- dice Conte – i concerti, le rappresentazioni teatrali costituiscono alimento per lo spirito, nutrimento per l’anima», ma «proprio perché grave è stata una decisione particolarmente sofferta». Un passo avanti, almeno, rispetto a quel «ci fanno divertire» che, come si suole dire «fece venir giù il teatro» ma non per gli applausi quanto per i fischi.
Immediato, Matteo Salvini da buon pifferaio ha subito chiamato a se nuovi consensi dichiarando su Twitter il 25 ottobre: «Chiudere attività come palestre, cinema e teatri che negli ultimi mesi hanno investito tanto per adeguare gli standard di sicurezza sanitaria è una sciocchezza. Luoghi sicuri e controllati, perché prendersela con loro?».
Riusciranno le nuove suadenti note ad affabulare gli affabulatori di mestiere, notoriamente sprezzanti della rozzezza del Capitano? Non è escluso, soprattutto se il Governo dovesse fare marcia indietro, come spesso è accaduto. Virtuosismi del piffero che se orientato nella giusta direzione attrae nuovi topi! Ci sarà tempo, quando sarà il momento, per scoraggiare quelli riottosi al nuovo corso.
Nella favola dei Fratelli Grimm il Borgomastro di Hamelin che, costretto degli eventi, ha ingaggiato il Pifferaio si dispera solo quando oltre ai topi oggetto dell’incarico questi, contrariato, incanta anche tutti i bambini del paese e li porta via con sé verso un incerto destino. Noi che delle favole amiamo, quando è possibile, il lieto fine, continuiamo a sperare che stavolta dall’alto del proprio ruolo, sappia intervenire prima che sia troppo tardi ed a tornare indietro siano soltanto i topi, eterni e irriducibili eredi del mondo.