Su uno degli specchi della mia cameretta di liceale era attaccata una pagina di libro senza punteggiatura e senza maiuscole. Non era James Joyce, non era neppure Enrico Ghezzi. Faceva così:
«la gente va a teatro per la lampada di omar dove altro la troverebbe
la gente va a teatro per vedere il drago sconfitto
la gente va a teatro per mescolarsi al vento
la gente va a teatro per le chiavi della salvezza
la gente va a teatro per imparare a respirare
la gente va a teatro per la liberazione sessuale per la
liberazione spirituale per il messaggio
la gente va a teatro non per cattive intenzioni».
Se su di voi non fa colpo, è perché non avete sedici anni. Se il nome dell’autore, Julian Beck, non vi dice niente, è perché vivete nel 2020, non sapete cosa sia stato il Living Theatre, e probabilmente le uniche volte che siete andati a teatro in questo secolo sono state le recite scolastiche dei vostri figli (uno strazio per il quale il governo dovrebbe provvedere a un ristoro).
Ogni tanto mi chiedo se la me sedicenne che aveva un abbonamento al Duse – teatro bolognese in cui, durante le recite di Dario Fo, accadeva che una signora ben vestita urlasse «basta politica», e Fo sospirasse «certo, questa è la serata degli abbonati» – fosse sfortunata.
Ad avere sedici anni in un’epoca in cui non potevi guardare i film di Scorsese sul telefono, sotto le coperte. Ad avere sedici anni quando persino le serie televisive erano un consumo complesso: “Murphy Brown” la mandavano in onda alle sei di mattina, le sveglie che non ho mai messo per studiare le ho messe per guardare Candice Bergen.
Siamo cresciuti assai diversamente, noi di quel secolo lontanissimo. Alcuni sono diventati Martin Scorsese: serenamente consapevole che il suo film di quattro ore lo guarderemo a pezzettini, su un attrezzo dal quale in contemporanea mandiamo messaggi, mentre giriamo il sugo. Altri sono diventati registi italiani con la mistica della sala e del silenzio e della ritualità, che se il film non gli esce al cinema soffrono: è impensabile ch’io venga guardato con un’attenzione più frammentata di quella con cui veniva guardato Fellini; meglio un incasso con cui non ripaghi le spese, ma con la magia della sala buia.
Sono tre giorni che politici, intellettuali, e gente che non ha ancora deciso come collocarsi sullo scivoloso confine tra le due attività dicono e scrivono della chiusura dei cinema e dei teatri. Veltroni chiede perché le chiese siano aperte e i teatri chiusi (domanda legittima, a parità di non frequentazione in questo secolo); Franceschini dice che «si tratta di ridurre la mobilità» (non si sa bene di chi: ministro, li ha visti gli incassi dei cinema negli ultimi mesi? Pare evidente che nessuno si muovesse da casa per andarci); Conte (il segnaposto, non il cantante) dice che gli autobus sono affollati di gente che va a cinema e a teatro (poi, una volta arrivata davanti alla sala, cambia idea – non c’è altra spiegazione – e a quel punto affolla un altro autobus per tornare a casa).
Mentre la gente di cinema riempie le proprie pagine Instagram di riquadri blu in cui chiedere conto delle chiusure a Franceschini, con lo stesso impeto con cui le riempiva di riquadri neri per significarci quanto fosse contro il razzismo, prende il via una cosa che non saprei come chiamare: si può dire «dibattito» d’una conversazione in cui la pensano tutti allo stesso modo?
Andrée Ruth Shammah dice che organizzerà delle navette per andare al Parenti, visto che Conte non vuole che il pubblico teatrale si assembri sul metrò (in tv direbbero: una provocazione).
Nicola Lagioia scrive che «senza polis non si dà il teatro. Ma senza teatro – fosse anche un attore, davanti a tre spettatori, distanziati dieci metri – la polis comincia a disgregarsi». Non vorrei fare sempre la parte dell’analfabeta coi riferimenti bassi, ma non sarà che la polis, nel ventunesimo secolo, la aggrega più Temptation Island che Pirandello? Più il Favino di Sanremo che il Favino di Koltès? (Sì, lo so che a Sanremo Favino fece anche Koltès, ma secondo me avete capito cosa intendo: siete gente sveglia).
Credo che Lagioia lo sappia meglio di me: il suo ultimo libro (“La città dei vivi”, Einaudi) è in fondo il suo modo di portare Koltès a Sanremo. Fare di ciò che aggrega la polis – la Sciarelli e la Leosini – un supercorallo Einaudi. E poi farne una serie televisiva (la trasmetterà Sky); giacché, se pensi che «l’arte rifonda continuamente la comunità, problematizza il nostro vivere insieme e dunque lo ricompatta», nel 2020 è dove la comunità va a vedere il drago sconfitto che devi andare: in tv, mica al Duse.
Il dualismo veltroniano – perché le chiese sì e i teatri no – che tanto successo ha avuto sulla mia bacheca Facebook, piena di gente indignata perché ora non andare al cinema è legge e non scelta, è stato ieri risolto da Alessandro Baricco. Che, in un’intervista a Repubblica, ha equiparato le scelte ricreative: «Teatri e cinema – ma aggiungerei anche le palestre e le chiese – sono la fonte della nostra forza fisica e morale».
Ognuno si svaga come vuole, mi pare il principio più sano di mente che abbia sentito enunciare di recente. Solo che Baricco non la mette esattamente così, perché è pur sempre sulle pagine culturali, un luogo in cui si deve fingere che l’Italia sia fatta a forma di Anteo e Nuovo Sacher. Prosegue infatti Baricco: «Un teatro non vale più di una palestra e di una chiesa. Sono tutti posti in cui si costruisce la salvezza della gente. Sono i luoghi in cui possiamo resistere, esercitare la nostra fermezza morale». Addirittura?
Non vorrei fare sempre la parte dell’analfabeta che, quando gli altri citano come minimo Sofocle, cita al massimo “Il tempo delle mele”, ma nel Tempo delle mele c’era un’interessante conversazione tra la madre, disegnatrice di fumetti che voleva continuare a vivere a Parigi, e il padre, ricercatore scientifico che voleva trasferirsi a Lione. Erano gli anni Ottanta: oggi la madre direbbe che lui pensa il suo lavoro abbia la precedenza perché è maschio. Allora, illuminantemente, gli diceva che lui pensava di fare un lavoro più importante perché salvava la vita all’umanità, «ma io l’umanità la faccio ridere».
Che siano fumetti, palestre, teatri, non potremmo prenderla più bassa e, senza dire che salvano la società e ne tengono saldo il fulcro morale, limitarci a convenire che c’intrattengono, e che essere intrattenuti è una cosa importantissima? L’aveva capito quarant’anni fa un personaggio d’un film per bambine, possiamo arrivarci anche noialtri che ogni giorno, osservando i pupi in didattica a distanza, pensiamo intensamente a Euripide.
«Nessun organismo vivente può mantenersi a lungo sano di mente in condizioni di assoluta realtà», scriveva Shirley Jackson. La gente va in palestra, o accende la tv, o in rari casi va al cinema o a teatro o in chiesa, perché si vuole svagare. Non per cattive intenzioni.