Che fine ha fatto il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede? Sembrano passati secoli dai tempi delle manette e dei daspo ai corrotti. La pandemia ha terremotato tutto, anche dalle parti di Via Arenula, e le accuse di giustizialismo hanno lasciato il passo a grane più complesse. Sei mesi da incubo, quelli del Covid, con le proteste violente nelle carceri e i domiciliari concessi ai boss mafiosi. Ma anche le mozioni di sfiducia in Parlamento e la paralisi dei tribunali. Senza dimenticare la clamorosa guerra con il pubblico ministero antimafia Nino Di Matteo, paladino dei Cinque Stelle e principale artefice dell’eclissi di Alfonso Bonafede.
Oggi il Guardasigilli continua a lavorare senza clamori in un ministero che negli ultimi mesi, tra scandali e polemiche, ha visto decapitati quasi tutti i suoi vertici. Super dirigenti e collaboratori scelti proprio da Bonafede.
A maggio si era dimesso il capo del Dap – Dipartimento dell’amministrazione finanziaria – Francesco Basentini dopo i disordini nei penitenziari e il caos scarcerazioni. Pochi giorni dopo è toccato a Michele Baldi, capo di Gabinetto del ministro, che ha lasciato l’ufficio a causa di alcune intercettazioni con l’ex magistrato Luca Palamara. Solo qualche mese prima, a dicembre, il capo degli Ispettori del ministero Antonio Nocera aveva rimesso l’incarico dopo aver appreso di essere indagato per corruzione dalla Procura di Napoli.
«Quando il ministro si insediò e nominò questi collaboratori, che anche per gli addetti ai lavori erano perfetti sconosciuti, si vantò di aver scelto dei puri, dei soggetti che non erano mai stati contaminati dalla politica. Evidentemente quella scelta non fu felice», annota il deputato di Forza Italia Pierantonio Zanettin, già consigliere del Csm, il Consiglio Superiore della Magistratura.
Dopo gli scivoloni è arrivato il silenzio. In molti hanno notato il profilo sempre più basso dell’ex Fofò Dj, questo il soprannome di Bonafede quando da ragazzo organizzava le serate nelle discoteche di Mazara del Vallo. Oggi la musica è cambiata. «Si è tappato la bocca», assicura chi lo conosce bene: «Ormai frequenta solo quelli del cerchio magico».
Ha annunciato la digitalizzazione del processo civile entro la fine del 2020 e ha ricominciato le visite a sorpresa nei tribunali. Ma soprattutto rilascia interviste felpate e dichiarazioni da equilibrista. Ha parlato di «risultato storico» a proposito del referendum per il taglio dei parlamentari, mentre sulla crisi del Movimento 5 Stelle minimizza la débâcle alle regionali e auspica «una discussione sui contenuti, una nuova governance e il rilancio dei territori».
Avvocato classe 1976, siciliano di nascita e toscano d’adozione, Bonafede è il capo delegazione del Movimento 5 Stelle nell’esecutivo. Conosce il premier Giuseppe Conte dai tempi dell’università a Firenze dove fu suo assistente, prima di diventare uno dei suoi principali sponsor per lo sbarco a Palazzo Chigi.
Un «ministro reclutatore», lo aveva soprannominato il Corriere della Sera, dopo che suggerì alla sindaca di Roma Virginia Raggi il nome di Luca Lanzalone, poi diventato presidente di Acea, la potente multiutility del Campidoglio da cui dovette dimettersi dopo essere finito a processo sul caso dello stadio della Roma.
Molto vicino al presidente del Consiglio, ma non solo. Bonafede è sempre stato uno dei governisti più convinti, fedelissimo di Luigi Di Maio. Con il ministro degli Esteri e gli altri big dei 5 stelle si è riunito a cena per fare il punto sulla guerra interna al Movimento. Alcuni summit sono stati convocati anche a Via Arenula.
In questa fase Bonafede si è tenuto a debita distanza dal dissidente numero uno, Alessandro Di Battista, auspicando una leadership collegiale «che rappresenti le varie sensibilità del Movimento». Ha blindato anche l’alleanza col Partito Democratico: «È positiva, non c’è paragone rispetto a quella fatta con la Lega, con il Pd ci si siede a un tavolo e si cercano soluzioni con serietà».
Ma i problemi sono soprattutto fuori dalla galassia pentastellata. E assediano il ministero che Bonafede guida dai tempi del contratto di governo con Matteo Salvini. La giustizia è sempre stata una bandiera del Movimento. La riforma della prescrizione e la legge spazzacorrotti le armi orgogliosamente esibite agli elettori, ma anche quelle più criticate dal mondo del diritto.
Peccato che il contrappasso più forte sia arrivato proprio sul tema delle galere. Quasi uno scherzo del destino. Il Guardasigilli, accusato di fare riforme forcaiole, etichettato come manettaro dagli avversari, è salito sul banco degli imputati per la concessione degli arresti domiciliari ad alcuni boss durante la pandemia.
«Nessun ministro sarebbe sopravvissuto alla crisi che c’è stata dopo le scarcerazioni dei mafiosi». Mario Michele Giarrusso, avvocato e senatore, è un attivista Cinque Stelle della prima ora, espulso dal Movimento lo scorso aprile. Al telefono con Linkiesta non ha dubbi: «Bonafede, che oggi è un ministro indebolito, ha retto perché fa parte di quel “cerchio tragico” dei Cinque Stelle al governo che è intoccabile. Abbiamo perso gli elettori, ma la squadra che perde resta al comando. L’ala governista di cui fa parte Bonafede si è staccata dai parlamentari e dal resto del Movimento. Almeno governassero, invece occupano il potere e dividono incarichi, soldi e prebende».
Il senatore, siciliano come Bonafede, non si capacita del trattamento riservato a Nino Di Matteo, il pm più scortato e divisivo d’Italia, «uno dei simboli della nostra campagna elettorale». Del resto, i fatti sono noti e risalgono a fine giugno 2018. Il ministro propose al magistrato antimafia di diventare capo del Dap, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, ma il giorno dopo fece marcia indietro. Disse che preferiva mandarlo alla direzione degli Affari Penali.
Di Matteo declinò: «Bonafede mi disse “ci sto rimanendo male perché per quest’altro incarico non ci saranno dinieghi, o mancati gradimenti che tengano”. Io non mi sono mai sognato di chiedere a Bonafede cosa fosse avvenuto in quelle 22 ore, chi gli avesse prospettato un diniego o che volesse dire con mancati gradimenti». La nomina ai vertici dell’istituzione penitenziaria, ha spiegato ancora Di Matteo, era stata oggetto del dibattito in carcere e delle proteste di diversi detenuti al 41-bis.
Un terremoto dai risvolti imbarazzanti per il Movimento, che a luglio ha registrato un’altra scossa. Il boss mafioso Filippo Graviano, condannato per le stragi del ‘92 e del ‘93, è stato intercettato in carcere mentre parlava così: «Quell’uomo… di Giletti e quel… di Di Matteo stanno scassando la minchia. Il ministro fa il suo lavoro e loro rompono i…». Una sorta di endorsement a Bonafede, secondo il giornalista Massimo Giletti. Accolto non senza imbarazzi nel governo.
Tutto questo, dopo che a marzo una cinquantina di penitenziari italiani erano stati devastati nel corso di rivolte violente scoppiate contro il blocco dei colloqui e il rischio contagi. In realtà, secondo le indagini della Procura Antimafia, dietro le sommosse ci sarebbe l’ombra dei boss. Un bilancio pesantissimo, con oltre diecimila detenuti coinvolti e 13 morti, oltre a un’evasione record a Foggia con 72 fuggitivi. Le immagini hanno fatto il giro del mondo, con annesso putiferio politico.
Passata la tempesta, oggi i Cinque Stelle esultano per l’arrivo alla Camera della riforma del Csm. «Ma il governo l’aveva annunciata il 7 agosto e siamo riusciti a vedere il testo solo una settimana fa», spiega a Linkiesta Pierantonio Zanettin, membro della Commissione Giustizia di Montecitorio ed ex consigliere del Csm.
Il punto è un altro, secondo Zanettin. «Quando abbiamo discusso dell’abolizione della prescrizione c’era ancora il governo gialloverde. L’accordo prevedeva che sarebbe entrata in vigore il primo gennaio 2020 e prima di quella data si sarebbe dovuta fare la riforma epocale della giustizia, di cui si sono perse le tracce. La verità è che i provvedimenti annunciati da Bonafede sono fermi. Le leggi delega per il processo penale e civile sono indietro. Sono alla fase delle audizioni, dove peraltro hanno ricevuto critiche da tutti. In più, essendo leggi delega, avranno bisogno dei decreti attuativi. Parliamo di una prospettiva di anni».
Dal canto suo il Guardasigilli è riuscito a inserire nel decreto sicurezza il “daspo anti-risse”, sull’onda dell’omicidio del giovane Willy a Colleferro. L’ennesima norma mediatica? Chissà. Il vero risultato che rivendica il Movimento, però, è un altro. Bonafede ha inventato il reato per chi introduce telefoni cellulari in carcere e per chi, dietro le sbarre, li possiede.
Se prima era previsto solo un illecito disciplinare sanzionato all’interno delle carceri, ora è un reato: da uno a quattro anni. L’urgenza del provvedimento è giustificata da numeri impressionanti. Solo nel 2020 ne sono stati scoperti 1761 dentro gli istituti penitenziari. Confusi nel cibo, sistemati negli indumenti intimi, collocati nel fondo delle pentole, inseriti dentro un pallone per poi essere lanciati.
Intanto, con l’aumento vertiginoso dei contagi torna la paura che nelle prigioni la situazione possa nuovamente sfuggire di mano. Massimo De Pascalis è l’ex vicecapo del Dap, con «quarant’anni di esperienza stupendi» nella giustizia. A Linkiesta confida: «Parlando con la polizia penitenziaria colgo molta preoccupazione. Chi lavora in carcere teme che il virus torni a diffondersi in quegli ambienti. Dio ce ne scampi, ma mi domando se l’amministrazione abbia preparato un piano di emergenza, sia dal punto di vista sanitario che sulla sicurezza. Anche per evitare quanto successo nei mesi scorsi».
Dalle prigioni ai tribunali, adesso che succederà? «Posso solo constatare che il tema giustizia è congelato. Non sappiamo più nulla dell’attività parlamentare, non incontriamo il ministro da luglio. Questo silenziamento coincide con le polemiche violente, e in larga parte gratuite, legate alla scarcerazione dei boss. Da quel momento non abbiamo più segnali di iniziative politiche del Guardasigilli», spiega a Linkiesta Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione Camere Penali.
Dopo la paralisi dei processi causa Covid, le udienze sono riprese tra mille ostacoli e senza indicazioni univoche da parte della politica. Il rappresentante dei penalisti italiani racconta: «Non ci sono regole comuni, tutto è affidato ai singoli uffici giudiziari che hanno pochi mezzi. L’accesso degli avvocati e dei cittadini ai tribunali continua a essere difficilissimo. Non possiamo depositare atti da remoto, nemmeno con la pec, perché manca una norma che lo autorizzi. Così, a Roma, per consegnare un’impugnazione c’è un solo sportello con una fila di cinquanta persone e relativi assembramenti. Se fate un giro per gli uffici giudiziari d’Italia, troverete cartelli con scritto “vietato” o “prenotarsi solo il martedì”. Questo è un danno in primis per i cittadini a cui non viene garantito il diritto di difesa».
La situazione diventa ancora più preoccupante, se si considera la seconda ondata di contagi e il rischio di nuove chiusure. La riflessione di Caiazza è amara: «Noi siamo vicini al default di un sistema che era già sconclusionato prima del Covid, poi lo stop dei processi ha fatto sì che si accumulasse un ritardo mostruoso, peraltro nell’epoca della prescrizione bonafediana. Oggi non mi aspetto nulla di buono, la giustizia non è all’ordine del giorno di questo governo».