Un giudice a VarsaviaIn Polonia la Corte costituzionale ha quasi azzerato il diritto all’aborto

La Consulta ha dichiarato illegittima l’interruzione di gravidanza per malformazione del feto, che rappresenta il 98% dei casi a livello nazionale. La sentenza è dovuta a una richiesta da parte della maggioranza sovranista

Afp

Dal 22 ottobre 2020 per le donne polacche sarà quasi impossibile interrompere una gravidanza. Con una sentenza che ha suscitato scalpore nel Paese e in tutta Europa, il Tribunale Costituzionale ha dichiarato «incompatibile con la Costituzione» l’aborto in caso di malformazione del feto. La legge polacca prevede ora il diritto all’interruzione soltanto in caso di concepimento frutto di violenza sessuale o di rischio per la salute della donna. 

Diritto all’aborto quasi azzerato
Il giudizio del tribunale è una mannaia sul diritto all’aborto in Polonia, Paese che dopo Malta ha le norme più restrittive sul tema di tutta l’Unione Europea. Soprattutto se si considera che la quasi totalità delle interruzioni di gravidanza registrate nel Paese avvengono per questo motivo: 1.074 su 1.100, quasi il 98%, stando ai dati del 2019. La decisione si avvicina molto a un divieto totale, come ha sottolineato anche Dunja Mijatović, Commissaria per i Diritti Umani del Consiglio d’Europa. E non è nemmeno necessario che il Parlamento adotti una legge ad hoc, in quanto le sentenze del Tribunale Costituzionale sono sottoposte a una procedura amministrativa gestita dall’ufficio del primo ministro: non appena il giudizio in questione sarà pubblicato in Gazzetta ufficiale, la pratica diventerà automaticamente illegale sul territorio nazionale.

Questo non vuol dire che le donne polacche smetteranno di abortire, spiega a Linkiesta Urszula Grycuk, coordinatrice internazionale di Federa, (Federazione per le donne e l’organizzazione famigliare) la più grande associazione per i diritti riproduttivi in Polonia. «Qualunque cosa la legge dica, gli aborti avvengono». Secondo le stime a sua disposizione, già ora sono in tante a cercare all’estero ciò che non possono fare in patria: più di 100mila ogni anno, cento volte il numero degli aborti ufficiali. «Nei Paesi confinanti ci sono costose cliniche che intervengono anche a gravidanza inoltrata. Ho sentito un dottore austriaco dire di operare due mie connazionali ogni giorno». 

Con questa sentenza, semplicemente, l’accesso all’aborto diventerà una questione di classe sociale. «Chi non potrà permettersi di andare all’estero per abortire lo farà in modi più economici. Ci saranno drammi, tragedie, traumi per le donne». Infatti, spiega la portavoce dell’associazione, il metodo illegale più utilizzato da chi sceglie di portare a termine una gravidanza sono le pillole abortive, che però vanno usate nelle prime settimane di vita del feto. «Le malformazioni di solito vengono scoperte oltre la ventesima settimana. A questo punto le pillole non funzionano più e si è costretti a ricorrere ad altri metodi». Non è un caso se fra i simboli delle proteste di questi giorni c’è l’attaccapanni, considerato lo strumento artigianale classico con cui ottenere un’interruzione di gravidanza: «Forse alcune cercheranno di abortire nelle cliniche private polacche. Ma i medici che si prestano rischiano di finire in carcere». Il quadro complessivo, già critico di per sé, è aggravato dalla pandemia, che nei prossimi mesi rischia di bloccare i viaggi verso l’estero dei polacchi e quindi anche delle donne intenzionate a interrompere la gravidanza. 

Associazioni come Federa, attivisti per i diritti delle donne e cittadini comuni hanno provato a fare sentire la propria voce davanti al tribunale di Varsavia e nelle strade delle città polacche, nonostante le restrizioni imposte per contenere la diffusione del Coronavirus che limitano gli assembramenti a dieci persone. Già nei giorni scorsi la protesta era montata per quello che viene definito un attacco ai diritti fondamentali e aveva valicato i confini della Polonia: tra le testimonianze di solidarietà c’è stata quella molto scenografica di alcune deputate del Parlamento Europeo, vestite come le ancelle del racconto distopico di Margaret Atwood. Contro questa limitazione si sono espresse anche le più rilevanti associazioni internazionali per i diritti umani, da Amnesty International, a Human Rights Watch.

Il governo dietro la decisione
L’accusa che da più parti piove sulle istituzioni polacche è quella di imporre nel Paese l’agenda ideologica della coalizione di governo, guidata dal partito Diritto e Giustizia (PiS). La sentenza giudica infatti una richiesta inoltrata da parte di un gruppo di parlamentari di maggioranza nell’autunno del 2019, con cui si chiedeva di valutare la costituzionalità di pratiche eugenetiche che negano ai bambini non nati il rispetto e la protezione della loro dignità umana».

Grazie ad abili manovre politiche il PiS è riuscito negli anni scorsi a limitare gradualmente l’indipendenza della magistratura, assicurandosi così la possibilità di modellare la Polonia sulle proprie convinzioni. Il processo di sottomissione del potere giudiziario è in fase così avanzata che nei confronti della Polonia è stata attivato da parte della Commissione Europea, per la prima e finora unica volta nella storia comunitaria, l’Articolo 7, con cui si «denuncia un serio rischio di violazione dei valori fondamentali dell’Unione». Quattro procedure di infrazione a partire dal 2017 e diverse risoluzioni del Parlamento Europeo sul tema fotografano la crescente preoccupazione di Bruxelles su ciò che succede a Varsavia.

Nello specifico, il Tribunale Costituzionale che in ogni Paese rappresenta in teoria il baluardo dello Stato di Diritto, è ormai considerato subalterno al partito di governo. Questo tribunale è formato in Polonia da 15 giudici scelti dal Parlamento e nominati dal Presidente della Repubblica per nove anni: visto che il Parlamento si rinnova ogni quattro anni, a chi governa servirebbero almeno due legislature consecutive per deciderne in toto la composizione. 

Il PiS però ha sfruttato una particolare contingenza politica, l’elezione del Presidente della Repubblica, che in Polonia si tiene ogni cinque anni ed è svincolata da quella del Parlamento. Un Capo dello Stato può quindi coabitare con un governo di orientamento politico diverso per parte o anche per tutto il suo mandato, assicurando così un ulteriore bilanciamento del potere. Nel 2015 tuttavia, le due elezioni coincisero: ad agosto diventò presidente il candidato del PiS Andrzej Duda (l’attuale Capo di Stato polacco, confermato nelle presidenziali 2020) e a ottobre lo stesso partito ottenne la maggioranza nell’emiciclo. 

Duda allora rifiutò il giuramento dei giudici neo-eletti dal Parlamento a fine legislatura, controllato dal partito Piattaforma Civica (Platforma Obywatelska, PO), e aspettò la fine del mandato di quelli rimanenti. Nel 2016 venne scelto il nuovo presidente del Tribunale Costituzionale: Julia Przylebska, conosciuta per la sua amicizia personale con Jarosław Kaczyński, da poco vice-Primo Ministro polacco e da sempre leader del PiS. 

Con un Tribunale Costituzionale favorevole è più agevole per il PiS portare avanti le proprie iniziative. Quella per limitare il diritto all’aborto è un cavallo di battaglia del partito, che già ci aveva provato nel 2016, fermato solo da una massiccia ondata di proteste popolari. L’obiettivo è stato raggiunto oggi, con quello che l’ex presidente del Consiglio Europeo, il polacco Donald Tusk ha etichettato come un atto di «malvagità politica».

L’aspetto più beffardo di questa stretta, infatti, è che colpisce quelle donne che vorrebbero un figlio, ma scelgono a malincuore di non partorire per evitargli una vita di sofferenze, spiega Urszula Grycuk. «Chi abortisce per una malformazione del feto deve già fare i conti con devastanti conseguenze psicologiche. Se ci aggiungiamo lo stigma sociale e l’impossibilità di accedere legalmente all’operazione, per loro le difficoltà saranno insostenibili. Per me è una decisione inumana».

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