Sostegno internazionaleLa lettera aperta degli ambasciatori per il rispetto dei diritti della comunità Lgbti in Polonia

I firmatari hanno voluto esprimere il loro sostegno agli sforzi per sensibilizzare l’opinione pubblica sui problemi che riguardano la comunità lesbica, gay, bisessuale, transgender e intersex e altre comunità che in questo paese devono affrontare sfide simili

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Cinquanta tra ambasciatori (tra cui l’italiano Aldo Amati) e rappresentanti di organismi internazionali a Varsavia hanno sottoscritto, l’altro ieri, una lettera aperta sui diritti della comunità Lgbti e delle altre minoranze in Polonia.

Coordinati dall’ambasciata del Regno del Belgio, i firmatari, ricordando come «a causa di circostanze epidemiologiche la parata per l’uguaglianza di Varsavia del 2020 non abbia potuto svolgersi alla data prevista», hanno voluto esprimere il loro «sostegno agli sforzi per sensibilizzare l’opinione pubblica sui problemi che riguardano la comunità lesbica, gay, bisessuale, transgender e intersex (Lgbti) e altre comunità che in Polonia devono affrontare sfide simili. Riconosciamo che sforzi analoghi sono stati fatti a Białystok, Bielsko – Biała, Częstochowa, Gniezno, Kalisz, Katowice, Kielce, Koszalin, Cracovia, Lublino, Łódź, Nowy Sącz, Olsztyn, Opole, Płock, Poznań, Rzówów, Torzówóz , Włocławek, Wrocław e Zielona Góra».

Hanno quindi riaffermato «la dignità intrinseca di ogni individuo espressa nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Il rispetto di questi diritti fondamentali, che sono anche sanciti dagli impegni Osce e dagli obblighi e dagli standard del Consiglio d’Europa e dell’Unione europea come comunità di diritti e valori, obbliga i governi a proteggere tutti i cittadini dalla violenza e dalla discriminazione e ad assicurare che godano di pari opportunità. A tal fine, e in particolare per proteggere le comunità che necessitano di protezione dall’abuso verbale e fisico e dall’incitamento all’odio, dobbiamo lavorare insieme in un ambiente di non discriminazione, tolleranza e accettazione reciproca. Ciò include settori particolari come l’istruzione, la sanità, gli affari sociali, la cittadinanza, il servizio pubblico e i documenti pubblici».

Ambasciatori e rappresentanti hanno poi reso «omaggio al duro lavoro della comunità Lgbti e di altre comunità in Polonia e nel mondo, così come al lavoro di tutti coloro che cercano di garantire i diritti umani per le persone Lgbti e di altre persone appartenenti a comunità che affrontano sfide simili, per porre fine alla discriminazione in particolare quella basata sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere». La lettera aperta si basa, in sintesi, sull’assunto finale che «i diritti umani sono universali e tutti, comprese le persone Lgbti, hanno diritto al loro pieno godimento. Questo è qualcosa che tutti dovrebbero sostenere».

La dichiarazione dei 50 diplomatici tiene dietro a due recenti prese di posizione autorevoli in sede Ue sul tema diritti delle persone Lgbti e Polonia: il discorso sullo Stato dell’Unione di Ursula von der Leyen e la Risoluzione sulla constatazione dell’esistenza di un evidente rischio di violazione grave dello Stato di diritto da parte della Repubblica di Polonia. Parlando il 16 settembre a Bruxelles davanti al Parlamento Ue riunito in plenaria, la presidente della Commissione europea ha espressamente condannato le Strefy wolna od Lgbt (zone libere da Lgbt, ndr), secondo la dicitura con cui si sono autoproclamati a tutt’oggi oltre cento comuni e voidovati, dicendo che si tratta di «zone libere da umanità e non hanno posto nella nostra Unione. E per essere sicuri di sostenere l’intera comunità, la Commissione presenterà presto una strategia per rafforzare i diritti Lgbti».

Adottata invece il 17 settembre dal Parlamento europeo con 513 voti favorevoli, 148 contrari e 33 astensioni, la Risoluzione è il risultato di un monitoraggio continuo a seguito dall’attivazione dell’articolo 7 (1) del Trattato sull’Unione europea (Tue) da parte della Commissione europea, che ha già avviato una procedura d’infrazione nei riguardi della Polonia per violazione dello Stato di diritto sulla base di quanto disposto dall’articolo 2 dello stesso accordo internazionale. Violazione, che, come noto, viene posta in correlazione con la legge elettorale, la riforma del sistema giudiziario, la nomina dei giudici della Corte Costituzionale, il funzionamento e la composizione della Suprema Corte, l’autonomia della magistratura.

Ma la Risoluzione, nel richiamare esplicitamente questi aspetti già al centro della procedura avviata dalla Commissione, ha incluso anche quanto attiene ai diritti fondamentali come il pluralismo nell’informazione e l’indipendenza dei media, la libertà di riunione e di associazione, la salute sessuale e riproduttiva, l’incitamento all’odio, la pubblica discriminazione, la violenza contro le donne, la violenza domestica e il comportamento intollerante contro minoranze e altri gruppi vulnerabili con particolare rilievo alle persone Lgbti.

Sotto quest’ultimo aspetto la Risoluzione ha espressamente menzionato i 48 arresti del 7 agosto a Varsavia (definiti la Stonewall polacca), la presa di posizione ufficiale della Conferenza episcopale a sostegno delle terapie di conversione e la menzionata autoproclamazione simbolica di comuni e voidovati a zone Lgbti-free. Alla luce di tali elementi il Parlamento europeo ha chiesto l’avvio della procedura di infrazione sempre da parte della Commissione per violazione dei diritti fondamentali, che minano alla base lo Stato di diritto, secondo quanto codificato sempre dall’articolo 2 del Tue.

Ma una condanna delle Strefy wolna od Lgbt è arrivata anche da oltreoceano. Richiamandosi espressamente alle parole di von der Leyen, Joe Biden, candidato democratico alle presidenziali degli Stati Uniti, ha infatti twittato il 21 settembre: «Sia chiaro: i diritti Lgbtq+ sono diritti umani e le “zone libere da Lgbt” non hanno posto nell’Unione europea o in qualsiasi parte del mondo». A stretto giro di posta è arrivata la replica dell’ambasciata di Polonia negli Usa, che liquidando incredibilmente quella di Biden come affermazione basata «su informazioni imprecise dei media, poiché non esistono “zone libere da Lgbti” in Polonia», ha aggiunto: «Il governo polacco si impegna a favore dello Stato di diritto, della parità di diritti e dell’inclusione sociale. Non c’è posto per la discriminazione nella nostra società».

Mentre negli Usa aveva luogo questo scontro virtuale, il 22 settembre, Matt Beard, direttore esecutivo di All Out, e Marcin Rodzinka, componente di Kampania Przeciw Homofobii (Kph) consegnavano alla commissaria europea per l’Uguaglianza, Helena Dalli, le oltre 340.000 firme, raccolte sulla piattaforma online per chiedere che le varie forme di attacchi alle persone Lgbt polacche, comprese le cosiddette zone franche, siano immediatamente condannate e bloccate.

Ma sono proprio le amministrazioni locali che, spalleggiate da Varsavia, non intendono cedere. E così, sempre il 22 scorso, il Consiglio comunale di Kraśnik, città del voidovato di Lublino, ha approvato una mozione per non recedere dalla qualifica di zona libera da Lgbt. Questo significa, che, oltre ai finanziamenti europei (ha ricevuto, negli ultimi anni, sette milioni di euro), la città di Kraśnik non potrà accedere a quelli molto consistenti (avrebbe potuto chiedere fino a dieci milioni di euro) previsti dal programma di 100 milioni di euro, finanziato da Norvegia, Islanda e Liechtenstein per città polacche di piccole e medie dimensioni. La ministra norvegese degli Esteri, la liberal-conservatrice Ine Eriksen Søreide, è stata infatti categorica al riguardo il 14 settembre: nessun finanziamento ai quasi cento comuni dichiaratisi Lgbti-free.

Resta poi la questione dei diritti delle donne, strettamente collegata a quella delle persone Lgbti, dal momento che la recessione della Polonia dalla Convenzione d’Istanbul, oltre all’ulteriore limitazione dell’accesso legale all’interruzione di gravidanza, è l’altro obiettivo dell’esecutivo esecutivo Morawiecki e del presidente Andrzej Duda. Come raccontato da Linkiesta, la Convenzione è stata attaccata il 17 settembre anche dalla presidenza della Conferenza episcopale polacca. Su tale documento ecco cosa ha dichiarato al nostro giornale la deputata Monika Rosa di Platforma Obywatelska, il partito europeista di centrodestra cofondato da Donald Tusk: «La posizione della presidenza della Conferenza episcopale polacca è enormemente preoccupante. Cerchiamo di essere chiari nel comprendere la gravità delle sue parole.

I vescovi polacchi cercano di criminalizzare la vita delle persone al di fuori delle prospettive della Chiesa. Prendere di mira, sminuire e perseguitare è una violazione dei valori cristiani e un esempio vergognoso che viene dato dai nostri leader religiosi. La Convenzione d’Istanbul riconosce l’attuale e storica discriminazione ed esclusione delle donne da parte delle istituzioni religiose, di cui la Conferenza episcopale polacca è un ottimo esempio. Forse la presidenza dovrebbe valutare l’opportunità di affrontare la propria opinione in una conversazione sulle esperienze di vita delle donne».

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