Property PornCon i suoi eccessi, “Selling Sunset” è lo spettacolo che celebra la fine del mondo trumpiano

Arrivato alla terza stagione, ha raggiunto un successo impensato e a tratti inspiegabile. Il reality show di una agenzia immobiliare californiana, con donne bellissime e agguerrite, sembra la caricatura dello spirito selvaggio del presidente americano

frame della prima puntata

È già arrivato alla terza stagione, ha registrato un successo imprevisto, è già sfuggito a ogni genere di inquadramento. “Selling Sunset”, visibile su Netflix, è un reality show che racconta le vicende di una agenzia immobiliare di Los Angeles, specializzata in case per super-ricchi.

Detto così, è poco: l’azienda è guidata dai fratelli Oppenheimer, due personaggi dalla bassa statura ma dagli alti appetiti che coordinano una squadra di collaboratrici prese da un casting di modelle. Sono tutte belle, quasi in modo sfacciato, perfino volgare. La regina, tra di loro, è la agguerritissima e biondissima Christine Quinn.

Per capire il tipo, basterà sapere che all’inizio della terza stagione sceglierà “Burgers & Botox” come tema di un evento per la presentazione di una casa. L’ospite viene, guarda la casa – che potrebbe appartenere a BoJack Horseman, se esistesse davvero – mangia un hamburger (vegano, ovvio) e il chirurgo gli fa un refill per contrastare le rughe. «Sono le due cose che amo di più».

Lo stile è evidente: un “How To Spend It” un po’ cafone, pieno di bellezze rifatte e case pazzesche, il cui successo ha sconcertato le compassate redazioni anglosassoni.

È un classico caso di “property porn”, sottolinea il Guardian, vera e propria pornografia immobiliare. Eppure che alla gente piacciano i programmi dove si parla di case non è una scoperta, anche se fino a pochi mesi fa ci si accontentava di vedere all’opera ristrutturazioni miracolose e rifacimenti a tempo record. “Selling Sunset” è un altro livello, un’altra cosa.

Soprattutto, sono altre case: ville immense, costosissime, con arredamenti discutibili ma comunque over the top. Di sicuro, ipnotiche: dal giardino si passa alle sale, alla piscina, fino al campo da golf sul tetto. Anche lo scenario è sfarzoso, con sullo sfondo la Sunset strip californiana, Hollywood con tutta la sua leggenda di star del mondo della musica e dello spettacolo.

E poi i protagonisti: Christine Quinn, la cattiva del team, è una celebrità. Per i suoi toni decisi, il carattere spregiudicato, per lo stile gridato, spropositato. È diventata un’icona che nel giro di poco ha sovrastato gli altri personaggi: perfino i fratelli Oppenheimer, che senza dubbio hanno un profilo più basso (ma nemmeno loro rinunciano al Botox, ci mancherebbe) risultano messi in ombra.

Insomma, il mix tra soggetti funziona, lo stile trash anche. Ma per spiegare il suo successo sono stati scomodati anche altri concetti: “Selling Sunset” è «escapismo» allo stato puro, voglia di fuggire dalla realtà (e magari dalla casa ristretta in cui ci si è trovati bloccati per la quarantena) verso un paradiso popolato di super-ricchi dai lussi ridicoli e glamour oltre ogni limite.

Per il Financial Times è «esibizionismo d’élite», è «nostalgia per gli eccessi di un’epoca che sembra ormai lontana», proprio in un periodo dove la proprietà immobiliare conosce chiari di luna (perfino Elon Musk ha venduto la sua villa a Bel Air, ma non per necessità economiche). È, infine, la dimostrazione che il «capitalismo sia ancora vivo», forse nella sua versione deteriore: venale, avido, brutto.

Eppure il modello di riferimento sembra palese. Qualehe indizio: si parla di mercato immobiliare, cafonaggine e sfrontatezza. Lo show ha cambiato costa, ha messo in campo le tipiche “California Girls”, ma ha mantenuto la mentalità del “good deal”. L’arte tanto decantata di Donald Trump.

“Selling sunset” riesce nell’impresa di essere una involontaria caricatura dello spirito selvaggio del presidente americano, nella sua fase imprenditoriale e imbrogliona del mondo del real estate. Tutto è eccessivo, tutto è ingrandito, tutto è, in una parola, “trumpiano”.

E forse è questa la chiave del suo successo: gli spettatori, risucchiati dal trash, non fanno altro che guardare un’epoca e uno stile di vita che colano a picco. Il canto, sguaiato, del cigno. “Sunset” è nel titolo per l’ambientazione, ma è impossibile non pensare che Christine Quinn, in mezzo a tutto queste esagerazioni, non ci stia presentando anche un lungo, inesorabile, tramonto.

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