Ricordo perfettamente l’ultima volta in cui la convivenza m’è sembrata un’ambizione romantica. Avrei compiuto quindici anni da lì a un attimo, e Luca Carboni la faceva sembrare un’ovvietà amorosa («la vita è troppo corta, non possiamo perdere tempo»); prometteva scene alla “Nove settimane e mezzo” (che era uscito un anno e mezzo prima ed era il punto di riferimento di noialtre cui sembrava trasgressivissimo; sarebbero passati anni prima di capire che, tra frigoriferi aperti e diluvi per strada, era ragionevole immaginare un attacco di colite per ogni scena di sesso), in cui lei suona il piano e lui le spalma la maionese sul collo; addirittura giurava che, in quella convivenza da spot, avremmo imparato a ballare il tango, «che nella vita serve sempre».
Come si faceva a pensare «Ma figuriamoci» di fronte a Carboni che chiedeva “Vieni a vivere con me”. Era impossibile, non essendo adulte.
Ieri «Vieni a vivere con me» era un titolo di Repubblica, preceduto dal vocativo «Lockdown». Non era un’offerta d’amicizia formulata ai prossimi provvedimenti antivirus, come poteva apparire a una lettura sintattica lineare. Era un articolo di Michela Murgia che teorizzava che, se dovevamo tornare a chiuderci in casa, toccasse organizzarsi per farlo in compagnia. Chi vive da solo faccia venire un amico a stare sul divano letto, e cose simili.
Non è la prima né la millesima volta, nei trent’anni in cui ho vissuto da sola, che vedo la solitudine trattata come uno spauracchio invece che come un’ambizione.
Da Laura Pausini in giù, nessuno usa mai “solitudine” come sinonimo di “beatitudine”, cioè come la intende la gran maggioranza di quelli che vivono da soli.
Mi viene in mente una sola eccezione, ed è una recente vedovanza. In tutti gli altri casi, chi sta da solo si è cercato quella condizione e la difende, contro una società determinata a convincerti che dividere un letto sia segno d’amore, mica di mancanza di metri quadri.
Nelle serie televisive le zitelle cercano qualcuno con cui cambiare quella loro condizione, mica ti chiamano un taxi prim’ancora che tu abbia finito di rivestirti.
Tutto congiura a dirci che soli è brutto, soli è sbagliato, soli è un ripiego.
Poiché chi vive da solo sa di essere privilegiato e di non dover infierire su chi divide non solo il letto ma spesso anche il bagno, nessuno di noi si sofferma mai a far notare agli Accoppiati Molti che essere accoppiati non è esattamente come vincere un Nobel o le Olimpiadi: è un risultato a portata d’un po’ tutti. Sono millenni che gli esseri umani si accoppiano e convivono, non servono particolari allineamenti di pianeti per riuscirci. Se volessero, anche gli Scompagnati Pochi avrebbero qualcuno con cui discutere del tappo del dentifricio.
Certo, obietterà l’Accoppiato, zelante nel suo voler soccorrere chi non ha bisogno di soccorsi: ma un conto è stare da soli qualche ora, un conto è stare da soli tutto il giorno; col lockdown ti leveranno l’happy hour con gli amici, come farai senza ciotole di patatine smanacciate da dita altrui?
E a quel punto lo Scompagnato non saprà come dirgli che no, è proprio per stare da solo il più possibile che vive solo, se avesse voluto stare da solo due ore al giorno si sarebbe sposato e poi si sarebbe iscritto in piscina.
Non saprà come dirgli che gli amici può sentirli al telefono, come peraltro accadeva anche prima, ché dopo i 35 anni chi ce l’ha mai più avuta la forza di uscire la sera, per ogni cena cui andava ce n’erano dieci che bidonava.
Non saprà come dirgli che in compagnia di sé stesso sta benissimo, e non capisce perché chi sta sempre in compagnia altrui sembri invece così terrorizzato dalla compagnia del tizio nello specchio: non può essere tanto peggio che far conversazione coi congiunti, suvvia.
Non saprà come dirgli che, dei matrimoni che ha visto da grande, l’ha colpito come nessuno spalmasse la maionese sul collo della moglie e quasi nessuna andasse a lezione di tango col marito, ma tutti, proprio tutti, somigliassero a un solo verso convivente di Carboni: «Potremmo dirci certe cose che ci fucilano alle spalle».
Non saprà come dirgli che apprezza l’intenzione, ma non ha alcun bisogno d’essere salvato dalle proprie scelte; lo stesso non gli sembra di poter dire dell’Accoppiato con cui sta parlando.
Non è colpa di Michela Murgia, intendiamoci.
L’intenzione è diffusa. Da quando abbiamo smesso d’instagrammarci in spiaggia e abbiamo ricominciato a parlare di virus, Twitter è pieno di gente (tutta sposata e con figli) che dice che bisogna pensare a come salvare dalla solitudine, in una nuova clausura, i single (quando c’è qualcosa di spaventoso, ne prendiamo le distanze chiamandolo in inglese).
Dev’essere il modo in cui gli esseri umani si convincono che la loro vita sia invidiabile: dirsi che chi fa una vita diversa soffre moltissimo, che va consolato, che va soccorso.
Si convincono che quella della prima clausura sia stata un’«angoscia solitaria», che va mitigata con «convivenze solidali». E io non so come dir loro che a marzo, consapevole che non avrei dovuto fare eccezioni al mio eremitaggio, perché tutte le cene cui non si poteva sempre dir di no, tutti i parrucchieri dai quali andavi perché mica potevi presentarti sempre in disordine agli altri, tutti i bar in cui facevi colazione perché sennò non esci di casa tutto il giorno e poi ti dicono che sei un’Alda Merini senza talento, non so come dir loro che, tranquillizzata dal fatto che tutte quelle cose contrarie alla mia natura eremitica erano fuorilegge e non avrei visto nessuno domani, né dopodomani, né la prossima settimana, non so come dir loro che quella che chiamano «angoscia solitaria» a casa mia si chiamava: dormire nove ore a notte, per la prima volta dagli anni in cui ascoltavo Luca Carboni.