Molte critiche sono arrivate, nei mesi scorsi, alla tv generalista, perché con milioni di italiani bloccati in casa, si poteva ricostruire un rapporto con quanti avevano perso del tutto l’abitudine a guardare i vecchi canali. Invece repliche, amarcord, centoni, ancora repliche. E così, mentre i social, i servizi di streaming e perfino la radio guadagnavano nuovo pubblico (e affetto che neanche guasta) per il futuro, la tv arrancava. Con la nuova stagione, però, qualcosa in più s’è mosso. Soprattutto una nuova generazione di autori comici appare più di frequente e si fa notare anche oltre le usuali bolle. Provo a parlarne con Saverio Raimondo che, per certi versi, è stato il primo di una nuova generazione a ottenere pubblico e spazio. Ormai presenza costante a Porta a Porta (Rai 1) e a Le parole della settimana (Rai 3), presto di nuovo conduttore di una sua trasmissione, protagonista di uno special Netflix e della scena della stand-up comedy italiana. Alla domanda «come stai?» risponde subito a bruciapelo.
«Bene. Ma posso dire di stare bene solo perché ho fatto un tampone ieri e sono negativo. Ormai, quando mi chiedono “come stai?”, se ho appena fatto il test rispondo “bene”, altrimenti dico solo “asintomatico”. Che può voler dire bene o male, non lo sai».
Era finalmente arrivato il momento in cui la stand-up comedy stava diventando mainstream anche in Italia ed è arrivato il Covid.
Sicuramente stava prendendo piede, mainstream non lo so. O meglio, non so più cosa sia mainstream oggi. Forse più niente, o un sacco di cose. Sicuramente aveva una buona risposta live già da un paio di anni: c’era finalmente una scena, bruscamente interrotta, come tutto lo spettacolo dal vivo. Il problema della stand-up comedy, soprattutto quella italiana, è che o la andavi a vedere live o non la vedi da nessuna parte. La musica, anche se sappiamo tutti che dal vivo è più bella, la trovi comunque in streaming. Di stand-up comedy italiana sulle piattaforme ce ne è poca, per la precisione siamo in tre.
È difficile immaginare il distanziamento per uno spettacolo di stand-up comedy
Più il locale è infimo e promiscuo più è stand-up. E non so neanche se quando potremo ricominciare dovremo riprendere da dove eravamo o ricostruire tutto daccapo.
Tornando al tuo paragone, è vero che la musica puoi ascoltarle online, ma è una specie di vetrina. Chi vive di musica, tranne pochi big, guadagna soprattutto con le esibizioni, non con Spotify.
Anche negli Stati Uniti i comici che vivono di stand-up comedy sono pochissimi. In Italia, a prescindere dalla pandemia, penso non ci riuscisse nessuno.
La mia impressione è che per qualcuno sia stata, però, anche un’opportunità. Nel senso che, coi locali chiusi, negli ultimi mesi abbiamo visto riversarsi in tv molti comici che, prima, ne restavano lontani
Una nuova scena comica, anche non stand-up come Valerio Lundini, ormai esisteva da un po’ di tempo. Ed era inevitabile, quasi fisiologico, che prima o poi questa scena sarebbe affiorata. Forse le contingenze hanno aiutato. Anche perché è una scena comica “giovane”, anagraficamente parlando e – passami il cinismo – siamo meno a rischio. E, poi, siamo più freschi nel reinventarci e nell’adottare nuove forme, formule e mezzi. Vedo quotidianamente quanto molti di quelli con maggiore esperienza nel mondo dello spettacolo italiano, vivano questa situazione come una gravissima limitazione.
Per esempio?
Penso a chi sottolinea l’assenza del pubblico in studio che, invece, io vivo come una grandissima opportunità. Perché il pubblico in studio è qualcosa che ci portiamo dalla tv delle origini che si fondava sul teatro. Ma il pubblico, appunto, ti serve a teatro, in televisione puoi tranquillamente farne a meno. Devi solo sopperire con più creatività.
Oltretutto, spesso, il pubblico in studio è anche meno “motivato” di quello teatrale.
Perfino gli studi televisivi sono pieni di quinte da cui non esce nessuno. Tutti retaggi teatrali che cerchiamo di adattare con esiti abbastanza tragici. Quasi fantozziani, a volte. O pure le risate finte che in Italia non abbiamo mai imparato a utilizzare. Negli Stati Uniti fanno un sound design perfetto, in Italia immagino ci sia un signore appesantito che, durante la digestione, manda a caso risate e applausi. La nostra generazione è più in grado di pensare a una televisione senza pubblico e quinte e, forse, è anche ora.
Però la tv italiana si rivolge a un pubblico anziano. E pure la pubblicità si rivolge a loro, perché sono loro ad avere i soldi e a poterli spendere.
L’anziano, però, ha un piccolo difetto di fabbricazione: tende a morire. E anche in tv se ne sono accorti. È vero, quindi, che il pubblico è anziano, ma è altrettanto vero che ce ne è sempre di meno. E il Covid ha dato un’altra botta.
Allo stesso tempo c’è l’ossessione per quello che sembra il nuovo: i social.
La tv soffre una sorta di invidia per i social. Programmi che fanno bassi ascolti sono poi i più commentati della bolla. Certo, anche lì potremmo dirci che chissà quanto la bolla è truccata e certe views sono acquistate, ma, d’altra parte, anche del campione dell’Auditel si è sempre detto di tutto.
Come si tengono assieme allora le due cose?
La tv deve necessariamente parlare a un pubblico anziano, ma allo stesso tempo deve necessariamente cercare di farsi almeno notare dal pubblico social. Allo stesso tempo la nuova generazione di comici, magari più avvezza ai social, ha necessità di parlare a un pubblico più anziano. È richiesto un compromesso a tutti, ma io sono un grande sostenitore dei compromessi.
Quindi sei ottimista?
No, sono un notorio pessimista. Anzi, un catastrofista. E proprio per questo sono sereno: perché so che stiamo andando a morire. La verità è che, sì, la televisione sta morendo.
I social stanno morendo?
Twitter lo danno per morti da quindici anni, ma, alla fine, è sempre lì e Donald Trump lo predilige.
Lo tiene in piedi lui.
Sì, lui e varie altre bolle. Forse Twitter è una malattia esantematica. Però, davvero, la verità è che tutto sta morendo e niente sta nascendo.
Questo è Gramsci?
Sì, del resto è morto anche lui. La tv, come direbbe Zangrillo, è clinicamente morta. Però è altrettanto vero che non è nato niente. Neanche i social, nessuno vive di social network. A parte Zuckerberg, ovviamente. Tutti i fenomeni del web alla fine hanno bisogno di andare in televisione altrimenti nessuno li paga. Sì, qualcuno ci vive, ma anche lì si contano sulle dita di una mano, magari due. Poi c’è la radio, la tv, gli eventi dal vivo. Anche io vivo di un sacco di cose, è normale. Ma niente ha sostituito, soprattutto economicamente, la televisione».
Di sicuro i social hanno ancora bisogno dei vecchi media per poterne commentare i contenuti, nel bene ma soprattutto nel male. Se non ci fossero certi programmi tv o i quotidiani da commentare sarcasticamente, buona parte delle conversazioni svanirebbero.
Molta tv cerca necessariamente il second screen anche se poi il second screen lo si ottiene soprattutto con la tv cosiddetta trash. Da questo punto di vista la rete non ha aiutato. Se stiamo tutti a commentare “quanto è brutto” o “quanto fa schifo”, la gaffe o la frase, inevitabilmente la tv ha necessità di produrre altro imbarazzo per alimentare il meccanismo.
Tu hai fatto trasmissioni completamente tue che si rivolgevano a un pubblico giovane, ma collabori anche con Porta a Porta, trasmissione che non puoi non definire mainstream.
Oserei dire che è oltre. È istituzionale.
Certo, la “terza camera”. Ma, ecco, quello che oggi si chiama “il tuo pubblico” come prende queste oscillazioni?
Da questo punto di vista sto sbagliando tutto. Nel senso che ragiono in termini che, forse, oggi sono sbagliati. Non ho mai provato a parlare “al mio pubblico”. Tant’è vero che noto una differenza rispetto ai miei colleghi che magari hanno un pubblico molto più uniforme sia anagraficamente che socialmente. Io, al contrario, mi ritrovo con un pubblico trasversale: il mio target va dai 20enni agli over 60. Da un certo punto di vista sono l’ultimo generalista. Forse perché, essendo nato un po’ a cavallo non ho mai pensato al “mio pubblico” che è una targetizzazione da social network, ma ho sempre pensato che se voglio fare il comico devo avere la capacità di far ridere chiunque.
Quindi non ci sono cortocircuiti?
Non avviene nessun cortocircuito perché il pubblico di Porta a Porta ignora le mie cose più trasgressive.
Non saprebbe nemmeno trovarle.
Mentre il pubblico più giovane e smaliziato considera il fatto che io faccia Porta a Porta come una gag. Che è poi lo stile con cui io lo faccio davvero: è chiaramente una gag. Ed è altrettanto evidente che il pubblico che mi segue sui social non va a guardarsi Porta a Porta se sa che ci sono. Semmai guarda il mio intervento su Facebook o su Raiplay.
Però durante gli spettacoli dal vivo questi due pubblici si incontreranno.
Infatti, posso dirti che durante i miei spettacoli dal vivo – dove mi spingo molto in là con la provocazione perché, come dire, sono io l’editore – tutto il pubblico ride, anche gli over 60. Perché è anche implicito per quella generazione e per quel pubblico il fatto che dal vivo un comico è più libero rispetto a quando si esibisce su Rai1 o su Rai3.
Quindi il linguaggio e, immagino, anche la costruzione dei pezzi sono ancora molto diversi?
Ancora molto. Ma il vero peccato originale che noi paghiamo è che la tv non si aggiorna da troppo. La tv italiana è sempre andata avanti solo per micro-spostamenti, ma dal 2000 in poi questi micro-spostamenti si sono addirittura interrotti. E adesso scontiamo vent’anni di mancati aggiornamenti.
Quando ti dicono “questo le persone che sono a casa non lo sanno” e devi rinunciare a una battuta?
Bisogna cominciare a dare le cose un po’ per scontate. Se io non capisco una cosa non è che mi esplode il cervello. Male che vada, vado a cercarmela. Un conto è se il pubblico non capisce niente, ma se non coglie una cosa non è così grave. Penso che se fai televisione generalista devi tendere una mano verso il pubblico, ma è uno sforzo che deve arrivare da entrambe le parti, anche il pubblico deve fare il suo.
Questo ci porta a parlare di “auto-censura”. Una volta la censura era solo quella dell’editore, adesso anche il pubblico, definiamolo “più evoluto”, chiede forme di censura.
La censura con la c minuscola ormai esiste e, ti dirò di più, è giusto che esista. La satira è tale solo se ci sono dei limiti. Se non ci sono dei limiti salta proprio il concetto di trasgressione. A me piace andare nei contesti – mettiamo, per esempio, la Rai – e lì capire dove sono i fili sensibili. Perché poi mi diverto a passarci vicino. Ed è, di conseguenza, il motivo per cui sui social non è divertente fare satira.
Perché non ci sono limiti.
Non ci sono dei reali paletti. Tutto può andare. Col risultato che, con l’infinità libertà, si sono creati eccessi clamorosi da ogni parte, compreso gli eccessi censori. Perché poi, a quel punto, il limite te lo chiede il pubblico con l’isteria collettiva che viviamo. Così hai due censure molto diverse, ma – paradossalmente – è molto meglio la censura Rai perché è molto più gestibile e divertente.
Non ti faccio la domanda sul “politicamente corretto” visto che in Italia non esiste.
Non è una questione di “politicamente corretto”, ma di permalosità e mitomania generale. Amplificata dai vecchi media che fanno risaltare solo i commenti negativi. Un paio di anni fa ho fatto delle battute sugli antivaccinisti durante una puntata delle “Parole della settimana” di Massimo Gramellini. Shitstorm immediatamente sui miei social. Li ho ignorati e, dopo 48 ore, la cosa si è spenta. Dobbiamo ricordarcelo sempre: non succede niente! È una cosa fondamentale. Il famigerato web che condanna e giudica, sì, ma nella pratica non succede niente. Perché poi le persone se ne dimenticano. E anche noi dovremmo imparare a dare molto meno peso.
La chiave è proprio la “permalosità”. Gli antivaccinisti, se capisci cosa intendo, è un insieme che tutti accettano venga deriso – tranne loro, ovviamente. Per altri insiemi non è così. Ed è una cosa nuova.
Io, invece, penso sia una cosa antichissima. Ti ricordi la pubblicità dell’Oréal? “Perché io valgo!”. L’ha citata di recente anche Guia Soncini su Linkiesta. E ce la citava anche Freccero all’Università. Secondo me risale tutto a quello. Questo io generalizzato, “io valgo”, che attribuisce un valore a sé stessi senza motivo. Un valore intrinseco al fatto che esisti. Ma non è così. Perché la verità è che nessuno di noi vale. E per valere dobbiamo fare qualcosa. Invece tutti sono convinti di avere un valore. Invece l’umanità è un incidente, proprio a livello cosmologico. Noi non valiamo. E siccome le persone pensano di valere, ma poi si accorgono – lo sentono! – di non valere, allora tutto ciò diventa frustrante e si sfogano sui famigerati social.