Una delle canzoni più piacevoli che ho scritto (intendo il testo) si intitola “La Specialità”. Mi piace come le alici.
In una canzone tutto accade una volta per sempre.
Nella canzone lei e io mangiamo le alici fritte dorate. Le canzoni migliori durano quanto i momenti felici perché i momenti felici durano quanto una canzone. Sto parlando di momenti, i momenti non sono mai tanto lunghi, lo dice la parola. Momento: una piccola frazione di tempo che contiene tutti i movimenti della bilancia che pesa le alici. Quel dondolare fino a una esattezza d’etti, quel suono di catena, quel rotolare del contrappeso lungo un’asta gracchiando col suo occhiello sulle tacche, quella bacinella lucida sul fondo: la bilancia a stadera, la bilancia del pesce a Campo de’ fiori, la bilancia una volta per sempre.
Si sa, la bilancia è uno strumento allegorico, metaforico anche, pure simbolico, spesso alludente, analogico sempre (non sto parlando delle bilance analitiche digitali, che sono la fine di ogni illusione). La bilancia è oscillante, perplessa sul peso finché l’essere umano blocca la concolina e decide quale peso ha la cosa. «Vuole altro?» è la frase che segna la fine di ogni pesata. Il momento è passato, / cogli le alici nell’involto incartato (sono le rime che fanno la poesia).
Sa tutto di noi, la bilancia. Noi siamo elencati (i nostri atti volubili, i nostri umori variabili) in quella lista delle bizzarrie del peso, frutto di ponderati studi, nella quale sono registrati gli «errori di misurazione e loro fonti», insomma tutte le variabili che falsificano la pesatura.
Si parla di noi, si parla di errate masse di riferimento (cosa sono?, credo noi), si parla anche d’aria (non fritta e dorata), l’aria, il venticello, le raffiche, anche leggere, che aumentano e abbassano il peso dei nostri giudizi, delle nostre valutazioni, dei nostri calcoli, delle nostre analisi, dei nostri pro e contro, il peso nel petto e sul cuore, anche sullo stomaco.
Si parla di noi, delle nostre mal calibrate scale, suscettibili di derive per variazioni di temperature (i nostri accaloramenti, i nostri geli) e per usura nel tempo (il nostro tempo che passa). Si parla di condense sui nostri corpi freddi e di evaporazioni dai nostri corpi caldi, che alterano il peso d’ogni cosa valutata dai nostri vacillanti sensi.
Si parla di anomalie gravitazionali, insomma se siamo al mare o in montagna, comunque davanti a un paesaggio (e chi non è testimone di un paesaggio?) e, si sa, fu detto una volta per tutte: il paesaggio è stato d’animo (ciao, Amiel, anche tu qui?). Si parla di disallineamento, provocato dalle nostre contrazioni, dalle nostre espansioni, dai nostri abbattimenti, dai nostri entusiasmi, dai nostri voli, dai nostri atterraggi catastrofici o sul velluto. E poi si parla dei nostri inganni. Questa degli inganni è bellissima, scientificamente bellissima, va riportata come è enunciata: «per fulcro agganciato da un sistema quadrato- quadrato invece che cerchio-punto, ingannando così la misura» (non ho capito di cosa si parli ma è convincente: si parla di noi).
Si parla di superfici, ora dure ora morbide che influiscono sulla pesata dei nostri abbracci: se sul pavimento di marmo o di mattoni o di mattonelle o anche di terra battuta, se sul parquet, se su moquette, se sull’erba, se sui ciottoli, se sugli scogli, se sulla sabbia, se su tappeti, se su materassi a molle o in gommapiuma o di foglie di granturco (ci sono stato), se su divani (i vari divani di una vita) eccetera, e se sulle spine.
Insomma, si parla di noi.
Devo finirla di fare gli elenchi (ma la letteratura è elenco, si sa).
Devo fermarmi qui col soppesare, ho in mente troppe bilance, come quando, seduti sulla stessa panca, lei spinse la coscia contro la mia: quella particolare pressione di bilancia carnale. Lascio? Vuoi altro? Vorrei altro finché non vorrei più nient’altro.
Il momento, già. Se durasse non sarebbe così indimenticabile. È indimenticabile quel che non dura e che non abbiamo afferrato.
Noi no ma esso, il momento, ha afferrato una manciata di noi, anche una falda di carne, e con essa se ne fugge. Come un cane con in bocca la nostra salsiccia o il nostro petto di pollo, o la coscia: è il momento fuggente e selvatico del nostro cane domestico, anche gatto.
È selvatico il momento? Sì, forse sì. Il momento felice è selvaticissimo. E selvatico vuol dire anche spontaneo. Se noi non lo siamo, spontanei, il momento lo è e si prende la libertà di praticare furti alla vita, la nostra. Non ai suoi danni ma a suo favore. Devi lasciarlo fare (tanto lo fa lo stesso): lascia che il momento rubi qualcosa alla vita. Tu cosa puoi fare? Questo: insegui quel momento fin nella sua tana, troverai sorprese, avrai notizie sorprendenti di te.
Mangiavamo le alici dorate e fritte, le mangiavamo con le mani. «Si può, è lecito, con le alici si può: usa le mani». La bocca che s’apre per ricevere un’alice è una bocca che s’apre a un sorriso. Fa’ la prova o ricorda, vedi un po’ se non è vero. Un’alice è un’alice, non è un’altra cosa, un’alice insegna a scrivere. È anche vero che ogni cosa è una cosa e non è un’altra cosa. Giusto. E allora dov’è la differenza? In questo: che non è un’alice ogni cosa, solo l’alice è l’alice. Mi pareva che l’alice fossi io. Dorato nella sua bocca, dopo essermi mandato a farmi friggere. Ma sì, addio a tutto. Sparecchiavamo la tavola coi nostri corpi come una chiglia che divide il mare. Le nostre murate crollavano su quel tavolo a schiantarsi mischiandosi in un tumulto d’onde che pure eravamo noi perché noi eravamo anche le onde. Della canzone scriverò un’altra volta, e della voce che la canta, e del compositore, e dei musicisti.
7 Novembre 2020