Visto come siamo combinati, forse la cosa peggiore di tutte è l’incertezza. Non sapere, non capire. L’unica cosa sicura è la crescente aggressività del nemico, il virus, mentre il governo non sa bene che fare. Non decide. Questa sospensione evoca pagine terribili della nostra storia.
“E guardavo le facce, le case. Prima che l’estate finisca quanti di noi saranno a terra? Quanto sangue schizzato sui muri? Guardavo le facce, le occhiaie, chi andava e veniva, il tranquillo disordine. Toccherà a quel biondino. Toccherà a quel tranviere. A quella donna. Al giornalaio. A quel cane” (Cesare Pavese, La casa in collina, 1948).
Non siamo forse nella medesima condizione psicologica anche noi che pure non siamo nella Torino del 1944 di Pavese? Ci sono i morti, i malati. Quasi tutti ne abbiamo conosciuto qualcuno di persona, e proprio tutti sentiamo nomi noti a decine, di gente che ha preso il virus o sta in quarantena, e c’è il ministro e la nuotatrice, il direttore di giornale e il fuoriclasse di calcio, l’attore di cabaret e il presidente degli Stati Uniti, è un girotondo infernale, e il problema è che siamo dentro la fase più acuta della guerra, come nell’inverno del 44, forse non lontanissimi dalla pace, ma chissà. Adesso siamo già nel lockdown, “abbiamo nella testa un maledetto muro”, come cantava Fossati. La gente comincia a fare provviste, e non è un bel segno.
E intanto l’indecisionismo regna sovrano a Palazzo Chigi, nei ministeri, in Parlamento, al Nazareno. Formicai impazziti. La politica sembra soccombere, anzi, non c’è proprio.
Non si sa niente, come quando i personaggi di Pavese cercavano Radio Londra per capire qualcosa del loro futuro. Noi, meno eroicamente, abbiamo Agorà e Tagadà, brancoliamo fra dichiarazioni di Boccia e Brusaferro, Speranza e Locatelli e degli altri comandanti in capo e attendenti di campo di questa guerra assurda: e ogni volta ci pare di saperne meno di prima.
Ci sarà un nuovo dpcm, a dimostrazione che quello di una settimana fa era inutile, con scelte raffazzonate e poco chiare, con ampia delega alle Regioni di fare il lavoro sporco (che esse non vogliono fare) di chiudere molto se non tutto, talché sarà necessario un ennesimo dpcm con misure più dure, ma piano piano, per evitare sino all’ultimo quel lockdown che tutti prevedono. Insomma, uno stillicidio.
La logica di Giuseppe Conte è quella di preparare gli italiani allo step successivo, arando la psicologia di un popolo come fosse un campo di zucchine – oggi ti tolgo questo, domani quest’altro, poi vediamo – e dunque scorticando i nervi di un Paese al tempo stesso malinconico e furente.
E poi ci si meraviglia che ovunque cresca il malcontento, come si diceva nei vecchi manuali di storia quando scoppiavano i famosi moti. Dunque non ci si sorprenda se la popolarità di Conte stia precipitando con velocità sorprendente. È stato percepito in primavera come il salvatore della Patria, mentre è individuato oggi come il responsabile dei ritardi su tutta la linea, dal mancato rafforzamento della struttura sanitaria al lassismo su scuole e trasporti.
D’altra parte siamo nell’epoca della grande volatilità del consenso e degli umori dell’opinione pubblica, era precipitato Renzi, poi il M5s, poi Salvini, ora tocca all’avvocato del popolo, al premier temporeggiatore cattivo erede di un andreottismo fuori tempo massimo.
Devono decidere qualcosa, Conte e i suoi stanchissimi ministri, scelgano una strada e che sia quella. Il premier, invece di incantare i serpenti con annunci di imminenti vaccini, ci faccia capire ora, subito, che cosa ci aspetta. Se ne è capace. Altrimenti avanti un altro.