Un altro mistero italianoQuarant’anni dal delitto di Giarre, su cui abbiamo ancora più domande che risposte

Il 31 ottobre del 1980 furono trovati, quasi abbracciati e mano nella mano, i corpi di Giorgio Agatino Giammona e del suo “zito” (fidanzato in dialetto siciliano), il 15enne Antonio Galatola, detto Toni. I due erano scomparsi il 17 ottobre, e ancora non è chiaro chi e perché abbia deciso di ucciderli. L’omicidio ha contribuito a formare il movimento di liberazione omosessuale e oggi viene ricordato grazie a un matrimonio

Sabato scorso Gino Campanella e Massimo Milani, che insieme con altri costituirono a Palermo, il 9 dicembre 1980, il primo nucleo della futura Arcigay, si sono uniti civilmente, dopo 42 anni di vita insieme, nella Sala degli Specchi del Palazzo comunale di Giarre (Ct). La data non è stata scelta a caso: il 31 ottobre è infatti ricorso il 40° anniversario di quello che sarebbe passato alla storia come delitto di Giarre.

Quel giorno, quasi abbracciati e mano nella mano, uccisi entrambi da un colpo di revolver Bernardelli calibro 7,65 alla testa, furono trovati da un pastore, sotto un enorme pino marittimo dominante viti e aranceti della tenuta agricola dei principi Grimaldi di Modica fuori l’abitato, il 25enne Giorgio Agatino Giammona – ne avrebbe compiuti 26 il 14 novembre – e il suo “zito” (fidanzato in dialetto siciliano), il 15enne Antonio Galatola, detto Toni. I due erano scomparsi il 17 ottobre precedente.

La natura del delitto resta a tutt’oggi non chiarita: fu suicidio, omicidio-suicidio o assassinio per le mani del 13enne Francesco Messina, nipote di Toni, che il 3 novembre ritrattò col dire di essersene assunta la responsabilità, su pressione e schiaffi dei carabinieri, per coprire il nonno? 

Secondo la prima deposizione dello stesso adolescente, supportata dalla ricostruzione delle forze dell’ordine, i due ziti, stanchi di essere costantemente scherniti in paese, gli avrebbero chiesto di ucciderli in cambio di un orologio: «Lo zio e Giorgio – disse allora – mi hanno portato in campagna e mi hanno detto: “O ci uccidi o noi uccidiamo te”. Mi hanno messo una pistola in mano e si sono sdraiati sull’erba, come per dormire».

Ma la versione sollevò sin da subito non pochi dubbi in giornali come Il Messaggero, Il Piccolo, La Sicilia, L’Avvenire. A non esserne convinti anche l’allora sindaco di Giarre, Nello Cantarella, e il sostituto procuratore di Catania Giuseppe Foti, che ancora oggi conferma la sua posizione a Linkiesta: «La versione data in pasto alla gente e persino a me, che cioè i due giovani fossero stati uccisi da un bambino di 13 anni, appare assurda. Tutte le indagini sono rimaste inficiate da questo iniziale approccio sbagliato. Quale sia stato il motivo di questo percorso erroneo non posso dirlo con sicurezza. Posso dire con certezza che il percorso è stato preordinato al punto da individuare un bambino quale omicida, al punto da far ritenere un pretore di convincere anche a me. Ma, una volta fatte le indagini, non si poteva più tornare indietro: erano pregiudicati tutti gli elementi che potevano essere perseguiti. Nell’immediatezza si sarebbero dovuti sentire i parenti del ragazzo che si accusava, quelli dei due ragazzi, capire da quanto tempo le vittime si frequentavano. Tutte queste cose non furono fatte».

L’inchiesta, condotta dal pretore Antonino Assennato, mostrò infatti tutte le sue lacune e si risolse con un nulla di fatto, tanto più che Ciccio Messina, essendo minorenne, non era imputabile secondo la legge.

Tutto sembra far dunque pensare a un delitto d’onore per lavare nel sangue un’onta familiare, di cui paiono serbare eloquente memoria – contrariamente a quanto forse escogitato dalle stesse famiglie – le differenti date di morte apposte sulle rispettive tombe di Giorgio e Toni: 26 novembre, addirittura circa un mese dopo dall’effettivo decesso, per il primo, 25 ottobre per il secondo. 

Tombe, la cui esatta ubicazione, ignota per 40 anni, è stata individuata proprio nei giorni scorsi dal sindaco Angelo D’Anna. È forse da leggersi in quel 25 ottobre l’esatta datazione dell’uccisione dei due ziti, i cui corpi in stato di decomposizione sarebbero stati ritrovati sei giorni dopo?

A ipotizzarlo è Paolo Patanè, ex presidente di Arcigay nazionale e direttore generale del Coordinamento dei Comuni Unesco Sicilia, che, come giarrese, si è adoperato in prima persona perché l’unione civile di Gino e Massimo avesse luogo, l’altro ieri, nel comune etneo. «Aleggia su questa orrenda storia di morte e disprezzo – così a Linkiesta – il retaggio ancestrale del delitto d’onore. Non mi stupirei se intorno a questo approccio si fosse costruito all’epoca un terrificante meccanismo di omertà e coperture complici, per trovare una soluzione comoda e sbrigativa a una vicenda scomoda e complicata. C’è infatti un mistero ulteriore che è emerso in queste ore. Finalmente sono state rinvenute le tombe dei due ragazzi e clamorosamente le date di morte differiscono e pesantemente. Ma perché questa differenza se insieme erano scomparsi il 17 e insieme trovati morti il 31 ottobre? E quella data del 25 ottobre? Scelta a caso o davvero qualcuno sapeva che l’esecuzione era avvenuta in quel giorno preciso? Credo che questa storia meriti il coraggio di una riapertura del caso giudiziario. Lo meritano Giorgio e Toni, morti uccisi senza risposte e senza giustizia».

Secondo Patanè «Toni e Giorgio furono indiscutibilmente assassinati e la pistola sepolta a poca distanza dai cadaveri ne fu, sin da subito, inequivocabile conferma. Non ho mai personalmente creduto che a sparare potesse essere stato un bambino di 13 anni, perché costretto da loro. Le indagini dell’epoca non provarono neppure a rispondere alle più banali delle domande possibili. E dico di più: personalmente non credo nemmeno che siano stati uccisi là dove vennero trovati i cadaveri. Anche immaginando che all’inizio si fosse sottovalutata la scomparsa e non si fosse potuto ipotizzare un fatto di sangue, è accertato che le ricerche degli scomparsi siano iniziate esattamente nell’area dove poi furono ritrovati cadaveri ben due settimane dopo. Com’è possibile che non se ne fosse trovata traccia alcuna per un tempo così lungo?».

Come che fu, una cosa è certa: Giorgio, che in paese era chiamato dispregiativamente puppu cu bullu (omosessuale col bollo, ossia patentato) per essere stato sorpreso dai carabinieri in auto con un altro uomo del posto e perciò denunciato, e Toni morirono di pregiudizio. Pregiudizio radicato nella comunità giarrese, che ancora oggi tende a tacitare la memoria di quanto avvenuto sotto quel pino marittimo. Oggi quell’imponente albero non esiste più. Ne rimane il ceppo all’interno del parcheggio antistante l’Istituto tecnico locale in una zona da anni urbanizzata. Ma insieme con la reliquia di quello che fu il testimone silenzioso del rinvenimento dei cadaveri resta vivo, nella collettività Lgbti+ nazionale, il ricordo di Giorgio e Toni: la loro morte venne quasi a segnare, in senso unitario, la nascita di quanto inizialmente veniva indicato come movimento di liberazione omosessuale. Anche perché l’opinione pubblica fu non solo scossa dal fatto di sangue ma portata a riconoscere l’esistenza dell’effettiva discriminazione verso le persone omosessuali.

Come diretta conseguenza si costituì il primo collettivo del Fuori! (Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano) della Sicilia Orientale e fu grazie ai militanti palermitani, in particolare Giuseppe Di Salvo e Pietro Montana, se il 6 novembre 1980 si tenne proprio a Giarre una grande manifestazione, cui parteciparono attivisti da tutta Italia come Bruno Di Donato ed Enzo Francone. Fu proprio Di Donato, all’epoca segretario del Fuori! di Roma e poi tra i fondatori del Circolo Mario Mieli, ad aprire in quella giornata, presso la Biblioteca comunale di Giarre, l’incontro-dibattito Omosessuali: orgoglio e pregiudizio, che vide, fra gli altri, gli interventi di Francesco Rutelli, di Pietro Montana, Saro Pettinato, Eliana Rasera.

Così a Linkiesta ne ricorda il clima proprio Rutelli: «Erano tempi profondamente diversi. Oggi le persone fanno persino fatica a calarsi in quella realtà, il che dimostra il grande progresso che i movimenti di liberazione sessuale e quelli Lgbti+ hanno portato alla nostra società. Il tema veniva ignorato dai grandi media. Nei confronti dei rapporti affettivi tra persone dello stesso sesso, l’unica attenzione era di cronaca nera, e i sentimenti tra distanza, disprezzo, paura. Io ero appena stato eletto segretario del Partito Radicale. Avevo 26 anni. Appresa la notizia, ho preso un aereo e mi sono precipitato a Giarre per testimoniare solidarietà verso le vittime e rifiutare il silenzio che si voleva far calare su quella storia tragica».

Sull’onda emotiva di quanto accaduto a Giarre fu fondato a Palermo, il 9 dicembre 1980, su idea di don Marco Bisceglia – che era stato sospeso a divinis – il primo Collettivo omosessuale dell’Arci quale estensione della Commissione nazionale per i Diritti civili dell’importante associazione. A realizzarlo proprio Gino Campanella e Massimo Milani insieme con Antonino De Gregorio, Eg. Arena, Luigi Mutolo, Giovanni Orlando (detto Gradisca), Salvatore Scardina (detto La Patrizia), Enzo Scimonelli, Salvatore Trentacosti e altri militanti di diversa provenienza politica. Fra questi anche Franco Lo Vecchio, che conserva ancora gelosamente una fotocopia del foglietto dattiloscritto con tutti i nomi dei “fondatori” e che coniò il nome Arci-Gay.

«Volli il nome col trattino, che poi Arcigay ha perso – ricorda Lo Vecchio a Linkiesta –, perché, come dissi in una delle riunioni che poi portarono allo statuto costitutivo del 21 maggio 1981, in questo modo “siamo noi a coinvolgere l’Arci. Altrimenti, senza trattino, questo Arcigay può sembrare arcigaio, arciallegro, arcicontento e non c’entra più nulla l’Arci. Invece, mettendo il trattino, indichiamo che noi siamo i gay all’interno dell’Arci e, dunque, loro devono riconoscerci e così l’incastriamo”. I rapporti infatti con l’Arci non erano affatto così rosei come si potrebbe pensare. Ma poi con la mia insistenza e con quella degli altri siamo riusciti a farci riconoscere».

In una tale ottica, aggiunge ancora Lo Vecchio, sono da spiegare in quel 1981 l’incontro-dibattito tra “Arci-Gay e forze progressiste” (12 giugno) – cui oltre a lui intervenne don Marco Bisceglia alla presenza della deputata radicale Adele Faccio –, la Festa nazionale gay a Villa Giulia (28 giugno) e la manifestazione a Giarre in occasione del 1° anniversario del delitto, sempre presso la Biblioteca Comunale, «con vari interventi, una mostra di pittura, l’ultima pièce di Nino Gennaro recitata con Massimo Milani. A permetterci la realizzazione l’Arci di Catania. Ci fu fra l’altro a sorpresa, in sostituzione di Maria Teresa Di Lascia, la partecipazione della deputata del Pci, Angela Maria Bottari, che tenne uno splendido discorso».

40 anni dopo i fatti di Giarre, l’unione civile di Gino e Massimo viene dunque a chiudere idealmente un cerchio. «Il gesto del loro sposalizio – dice Francesco Rutelli – è molto importante e un fatto magnifico, anche per la scelta di collegarsi alla vicenda di Giarre con amore e umanità. Ma ancora più importante è la traiettoria politica e associativa di Gino e Massimo: grazie a loro il movimento gay e poi Lgbti+ è cresciuto, nonostante le avversioni e i silenzi, e ha cambiato il modo di pensare e di agire di molte persone comuni e delle istituzioni, come dimostra anche la presenza del sindaco a celebrare la loro unione. Però la strada è ancora piena di ostacoli e la testimonianza di questi 40 anni non deve interrompersi, visto che fatti di violenza, omofobia, esclusione non sono finiti in molti settori popolari, e anche tra i ragazzi».

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