È una storia che proviene «dai territori angusti dell’esistenza» ma che si libera in quelli «sconfinati» della fantasia. “La modella di Klimt”, di Gabriele Dadati, appena pubblicato da Baldini è Castoldi, comincia dall’episodio del furto del dipinto “Ritratto di signora” di Gustav Klimt, avvenuto nel 1997 proprio mentre era esposta in una mostra alla Galleria d’arte moderna Ricci Oddi di Piacenza. Il quadro, rimasto nascosto per decenni, è ricomparso nel dicembre 2019 in un sacco della spazzatura. Chi lo ha rubato? Chi lo ha restituito?
Se le domande appartengono alla cronaca (e alle indagini della polizia), la risposta è del romanzo. Il sottotitolo, «La vera storia del capolavoro ritrovato» del resto annuncia una verità: forse non quella ufficiale, ma di sicuro una possibile tra le migliaia del mondo.
Parlarne è una forma di testimonianza. Ben lontana da quella (vedasi appendice) esposta ai commissari di polizia. Dadati, pochi giorni dopo il ritrovamento dell’opera di Klimt, avrebbe inaugurato una mostra dedicata a Stefano Fugazza, storico direttore della Ricci Oddi, morto nel 2009 a 54 anni dopo una terribile malattia e, soprattutto, suo amico e maestro.
Il furto del quadro di Klimt era stato all’epoca un colpo durissimo per lui (cui erano seguite le ciniche e politiche richieste di dimissioni, cui aveva resistito), tanto da essere diventato negli anni un argomento tabù. Non ne parlava mai, evitava l’argomento. Ecco perché il suo ritorno – e il libro che lo celebra – assumono un ruolo ulteriore: quello del risarcimento, forse tardivo ma comunque doveroso, del gallerista. E più ancora dell’uomo.
Il resto è, appunto, la storia. A metà tra la cronaca personale – i giorni del ritrovamento, il messaggio sotto la doccia, l’entusiasmo faticoso, la neve che copre una Piacenza freddissima – e il resoconto storico, ossia la Vienna di inizio Novecento, la Belle Époque al suo ultimo respiro, lo studio di Gustav Klimt e gli imbarazzi di una modella per caso che posa quasi senza comprendere il significato del gesto.
È l’ altalena dei piani storici (il presente, il passato) che si era già vista in “Nella pietra e nel sangue”, dove alle vicende del dottorando contemporaneo si alternavano gli sconvolgimenti storici dell’epoca di Federico II, con Dante Alighieri come lontano e comune testimone. Qui la distanza è più ristretta e copre l’arco di un paio di generazioni (ed è un particolare importante). Il Dadati-personaggio, alla fine del primo capitolo, verrà avvicinato da un curioso soggetto, Fridolin Schneider, studioso del Parmigianino, che gli racconterà una storia unica – una saga di famiglia, da un certo punto di vista. E un resoconto della storia europea, dall’altro.
È il racconto che si libera dalla realtà, si diceva. Ma una realtà comunque ricca di colpi di scena: basti pensare che il dipinto fu ri-scoperto per caso nel 1996, grazie a una studentessa delle superiori, Claudia Maga, che per una ricerca scolastica andò alla Galleria con in mano una monografia su Klimt. Si accorse in quell’occasione di una curiosa somiglianza tra la “Mezza figura di donna” (si chiamava così, all’epoca) e una delle figurine del suo volume, che rappresentava un dipinto andato perduto. Il volto, in particolare, era uguale. L’abbigliamento no: in quello scomparso la donna aveva un ampio cappello e una sciarpa ariosa. Possibile che fossero due dipinti gemelli?
Molto di più: erano lo stesso dipinto, che Klimt aveva modificato in due tempi. Come mai? Non si sa (né si sa che voto prese la studentessa per la sua ricerca, si spera molto alto).
L’anno dopo, ci fu la mostra, il furto, le varie piste (e depistaggi: una copia falsa, ma fatta benissimo, era stata ritrovata alla stazione di Ventimiglia e, chissà perché, era indirizzata a Bettino Craxi, allora ad Hammamet) e poi, a distanza di 22 anni, il definitivo (si spera) ritorno.
Tante domande, poche spiegazioni. Quelle più convincenti, a ben guardare, rimangono quelle del romanzo.