Arrivando nella assolata ed amplia Piazza della Repubblica (la vecchia Piazza Lenin), nel centro di Erévan la prima cosa che si nota sono immensi palloni di zucchero filato, di colori sgargianti. Bimbi che corrono, biciclette che sfrecciano. Voltandosi, spalle all’immenso palazzo della Galleria Nazionale, si capisce che da festeggiare ci sta ben poco.
Un enorme display manda in loop immagini di soldati, esplosioni, carri-armati e facce di giovani ragazzi che a malapena avranno compiuto 18 anni, lanciati al fronte, ma con il sorriso. La città non è grande, si gira velocemente e, altrettanto velocemente, si nota la quantità di richiami alla guerra che di nuovo infuria nella regione contesa da Armenia ed Azerbaijan, del Nagorno-Karabakh.
La regione, ricca di oro, si trova geograficamente all’interno dell’Azerbaijan ma, dal 1994 è controllata dagli armeni, i quali, con un Referendum vi costituirono una enclave , in piccolo Stato “de facto” (Artsakh) ad oggi non riconosciuto da nessuno Stato membro dell’Onu, tantomeno dall’Armenia, che se ne astiene per non incrinare il difficile processo di pace.
A seguito di “scaramucce” avvenute a luglio scorso, nei primi giorni di ottobre le ostilità sono divenute Guerra. Nelle prime fase di un conflitto i contendenti cercano il clamore, poi avviene l’escalation, si attiva la strategia da ambo i lati, si sviluppa un frontline ed una linea di contatto.
Così è avvenuto con i pesanti bombardamenti indiscriminati da parte Azera della città di Stepanakert (la capitale armena del Nagorno-Karabakh), la chiesa di Shushi (altra città importante crocevia della Regione), finendo a colpire anche scuole e numerosissime case civili. Non da meno sono stati gli armeni, bombardando pesantemente la seconda città dell’Azerbaijan, Ganja.
Il conflitto si è immediatamente inferocito dopo la sua “internazionalizzazione” con l’ingresso in campo, a supporto dell’Azerbaijan di Israele e della Turchia. Israele sta inviando un sempre maggior numero di aerei cargo, Istanbul non ha badato a spese mandando numerosa tecnologia, istruttori militari, milizie di mercenari siriani, supporto aereo, nonché armi proibite come i BM-30 Smerch, missili che deflagrano in bombe a grappolo.
La Georgia ha concesso lo spazio aereo alla Turchia ed a Israele, per far passare gli approvvigionamenti militari rendendo l’Armenia geograficamente e militarmente accerchiata. L’Iran si blinda sul suo confine Nord inviando divisioni di “Guardie”. L’Armenia ha implorato l’aiuto russo che ad oggi non è arrivato se non diplomaticamente, invece di aerei cargo Putin ha mandato nei primi giorni di ottobre alcuni emissari a rassicurare il premier armeno Nikol Pashinyan.
L’ultima carta di Erévan potrebbe essere invece il suo alleato storico, la Francia di Macron, che pochi giorni fa ha subito un pesantissimo attacco, personale, da parte del Presidente turco Recep Tayyip Erdoğan. Si potrebbe pensare che questa offesa possa dare il via ad un intervento più o meno evidente dell’Eliseo. Ma non è detto, considerando i problemi che, attualmente, ha sul suolo patrio.
La situazione sta rapidamente evolvendo verso un conflitto senza soluzione di pacificazione, la linea del fronte si è estesa da Nord a Sud della regione ed i combattimenti infuriano facendo numerose vittime e colpendo, come già successo, anche ospedali e scuole. Tre cessate il fuoco mediati da Stati Uniti, Russia e Nazioni Unite non sono bastati a calmare i contendenti; tutti sono stati violati nel giro di poche ore, forse minuti.
Un messaggio del presidente dell’Artsakh Arayik Harutyunyan, meno di 48 ore fa, presagisce il peggio. è una disperata chiamata alle armi del popolo armeno per la difesa della regione, «le truppe azere e le milizie filo turche», dice il Presidente dell’Artsakh, «stanno velocemente approcciando la città sacra di Shusha».
Shusha è la città roccaforte, crocevia del Corridoio Lachin nonché unico snodo di accesso alla regione per gli armeni; fu il teatro dell’operazione “Wedding in the Mountains” che portò alla vittoria, nel 1994, degli armeni sull’esercito di Baku. Se Shusha cadesse, per gli armeni, ci sarebbero ben poche possibilità di riconquistare campo; anche considerati i 7000 km2 di territorio che gli azeri hanno già conquistato.
Marina, una donna di 67 anni che incontro all Opera Suite Hotel a Erévan, ormai riconvertito a ricovero per le famiglie sfollate del Nagorno-Karabakh mi parla con gli occhi lucidi, «da trent’anni ormai vivevamo sereni, in pace, anche con le popolazioni azere; iniziavamo a sperare che questa (serenità) potesse divenire una realtà. Siamo scappati come molti a Stepanakert, in tutti i villaggi vicini non rimane più nessuno».
Ha paura Marina, l’incubo di non poter mai più tornare nelle sue terre la sconvolge. «Solo arrivando a Erévan, dove poche volte sono stata in vita mia, mi ha fatto capire che non ci sarebbe più stato un ritorno», sono le ultime parole che mi dice Marina prima di lasciarci.
Sono sempre più i pullman di sfollati che partono dal Nagorno-Karabakh, verso la Capitale Erévan e verso tutto il territorio armeno, pronto ad accoglierli. Così come sono sempre più numerosi i voli pieni di armeni che da tutto il globo stanno rientrando in patria per dar man forte alla popolazione combattente.
Ieri, la Russia sembra aver deciso di fare un passo in avanti verso il Governo di Erévan sedendosi a tavolino e stilando una lista militare di supporto. Stepanakert, la Capitale del Nagorno-Karabakh è ormai, praticamente, una città assediata.
Un tassista a Erévan mi da la misura della speranza che gli armeni ripongono nella vittoria. Mentre sta guidando a 80 miglia all’ora, invece di guardare la strada guarda le news sul telefonino appoggiato nel quadrante del volante, che provengono da Stepanakert, dalla regione di Askeran, da Martuni, Martakert, Hadrut, dalla linea del fronte, insomma. Gli chiedo che ne pensa, dice che non la vede bene, dubita anche che Stepanakert possa reggere, come tutto il Corridoio Lachin. Sarebbe un enorme, storica, sconfitta per il popolo armeno.