«Niente sarà più come prima». Questa affermazione, che abbiamo sentito ripetere come un mantra da articoli sociologici e di costume, vale a maggior ragione per la comunicazione.
I cambiamenti epocali che il lockdown ha introdotto nelle nostre vite sono legati ai media. Siamo passati da un modello di vita “naturale”, in cui i bisogni elementari e le esigenze lavorative erano sbrigati con lo spostamento fisico, a un modello in cui, per ragioni di sicurezza e distanziamento, ogni contatto è affidato alla comunicazione da remoto, telefonia e internet.
Per certi versi, è la crisi irreversibile di un sistema; per altri, rappresenta l’inizio di un nuovo modello sociale e paradigma economico. La crisi ha materializzato qui e ora stili di vita che conoscevamo a livello teorico solo attraverso la letteratura di fantascienza e la fiction.
La prova che il lockdown non ha avuto solo effetti distruttivi ma anche effetti promozionali risiede nella lettura dei dati economici. Se gli indici dell’economia reale sono disastrosi, le corporation della tecnologia e della comunicazione hanno fatto un balzo in avanti.
Viviamo un momento di passaggio come altri nel passato, quando per esempio nel XVIII secolo la recinzione delle terre, distruggendo l’agricoltura tradizionale, ha creato la manodopera necessaria alla successiva rivoluzione industriale. Anche ora assistiamo insieme a una distruzione e a una ricostruzione delle nostre vite, in una chiave che ci è in parte ancora ignota.
L’innovazione passa attraverso i media, che hanno una funzione individuale e di massa. Ed è a livello individuale che si manifesta più discontinuità: operazioni come nutrirsi, lavorare, andare a scuola sono riscritte dalle fondamenta.
Le difficoltà nel procurarsi generi di prima necessità hanno fatto esplodere il commercio online, facendo di Amazon, per ora, il vero vincitore economico. La chiusura dei ristoranti ha moltiplicato la consegna dei pasti pronti a domicilio. Il telelavoro, che sino a ieri era un esperimento di nicchia di alcune aziende della Silicon Valley o del Nord Europa, si è affermato, dove possibile, come una realtà destinata a durare nel tempo, sostituendo il lavoro tradizionale.
Anche la didattica da remoto sembra lì per restare, viene meno il rapporto immediato con l’insegnante, ma, come molti hanno notato, diventa possibile accedere a università più prestigiose.
La tendenza del cambiamento a permanere, nelle interpretazioni a lungo termine del mercato, ha chiari sintomi nei mutamenti già in atto nel settore immobiliare. L’acquisto della casa è un gesto definitivo, o comunque un impegno di lunga durata. La casa è il testo delle nostre vite. Prima del lockdown il modello più ricercato era il bilocale in centro, oggi la ricerca si sposta su case autonome dotate di giardino o di terrazza, possibilmente in campagna. Si riduce la cucina, luogo di tradizionale preparazione del pasto, si afferma la necessità di uno studio in cui lavorare. Ci stiamo attrezzando a una lunga resistenza.
Hikikomori per sempre
Torniamo al rapporto con i media che, legati alle necessità primarie, fanno ormai parte di ogni aspetto della vita quotidiana. Il traffico di internet in Italia è aumentato fino al 70% 1. Vediamo portata alle estreme conseguenze la famosa intuizione di Marshall McLuhan, ne “Gli strumenti del comunicare”, per cui i media sono estensioni dei nostri sensi. Senza media non potremmo vivere. E si avvera pienamente il mito cyberpunk dell’integrazione uomo/macchina: le prime forme destavano inquietudine ed erano vissute come una sorta di malattia devastante, un cancro che si impossessa dei tessuti umani per tramutarli in ingranaggi inorganici, e pertanto assomigliano a un incubo film come “Tetsuo” di Tsukamoto e “Videodrome” di Cronenberg; man mano che la produzione industriale è passata dalla macchina alla comunicazione, i rapporti uomo/tecnologia hanno cambiato di segno, passando dalla paura alla speranza.
Ora il cyberpunk è sostituito dal transumanesimo, che non rappresenta la soggezione dell’uomo alla macchina ma, al contrario, il superamento in chiave umanistica dei limiti umani. Il riferimento è alla famosa frase di Pico della Mirandola sulla mancanza di limiti dell’uomo, che potrà degenerare negli animali inferiori oppure proiettarsi nelle sfere divine per sua libera scelta.
Per la prima volta la tecnologia fa balenare all’uomo il miraggio dell’immortalità, da conseguirsi biologicamente o trasferendo la coscienza su supporti digitali.
La prima intuizione del transumanesimo è attribuita a Julian Huxley, ma ora lo sviluppo si concentra nella Silicon Valley, dove la sperimentazione ha visto imponenti investimenti di capitale (uno dei suoi più importanti teorici, Ray Kurzweil, è direttore capo del reparto di ingegneria di Google, mentre Elon Musk ha rivelato il suo progetto neuralink di interazione diretta cervello/computer).
I costi del progetto transumanista sembrano riservare questi progetti di immortalità a un’élite ristretta di miliardari, ma il progetto di fusione uomo/tecnologia ha cambiato di segno presso l’opinione pubblica: le voci critiche sono concentrate tra gli adulti, i giovani invece sembrano disposti a qualsiasi sacrificio per la tecnologia, e questa rappresenta il loro obiettivo di vita.
Adolescenti e giovani sono stati messi sotto accusa per la movida, che avrebbe favorito una ripresa dell’epidemia. Eppure, durante il lockdown, ho letto in molti articoli di costume un elogio per la compostezza con cui i giovani stavano affrontando l’evento, e molti genitori sui social media si sono espressi allo stesso modo, sorpresi dalla naturalezza con cui i ragazzi accettavano le regole della reclusione.
La spiegazione è semplice. Niente sarà più come prima perché saranno i media a dirigere le nostre vite: il cambiamento epocale a cui mi riferisco riguarda però soprattutto gli adulti, portatori di digital divide; la completa mediatizzazione dell’esistenza è normale per i giovani. Oggi il bambino impara a utilizzare i media prima di imparare a leggere e scrivere, e in genere prima ancora di parlare. La fiction sostituisce le favole e le babysitter. Le amicizie si stringono online. La realtà simulata prevale sull’esperienza reale.
Chiudersi in casa per allargare gli orizzonti è un’esperienza consueta e quotidiana, tanto da sfociare in una patologia ben nota. Il fenomeno è iniziato in Giappone e ha preso il nome di hikikomori. Il giovane si barrica nella sua cameretta con i suoi strumenti digitali e rifiuta la scuola e la vita sociale.
La vita nella camera risulta ai suoi occhi più soddisfacente, ricca di stimoli inesauribili e di possibilità di conoscenze infinite. L’hikikomori ha anticipato il lockdown e rappresenta in qualche modo il simulacro delle nostre vite future, con la socialità che passa dai rapporti in remoto. Il distanziamento sociale, che abbiamo subito come violenza, è per l’hikikomori l’ispirazione primaria: online si stabiliscono le amicizie sulla base di interessi comuni, giochi di ruolo, scoperte condivise; online ci si fidanza e si crea una coppia.
Questo fenomeno è tutt’altro che minoritario, tanto che esiste un’associazione hikikomori italiana e tanto che le scuole affrontano da tempo il problema del rifiuto scolastico. Ma quella che era una patologia è adesso destinata a diventare uno stile di vita non solo tollerato, ma auspicabile o addirittura imposto.
La regia del lockdown
Ma quali sono i cambiamenti nella comunicazione di massa? Anche qui c’è una rivoluzione, e riguarda, prima della qualità dei contenuti, la quantità del consumo. La chiusura e la preclusione temporanea di attività esterne come lo sport, il cinema e il teatro non poteva che portare a un incremento dei consumi di televisione e internet.
Il lockdown ha segnato la rinascita della televisione generalista, che sembrava destinata alla sparizione a favore di un consumo individuale su misura di serie reperite sulle piattaforme. Ma anche il consumo di internet ha fatto un balzo in avanti. Sommati, i numeri danno un incremento imponente. Contemporaneamente si è modificata la qualità dei programmi e dei contenuti. Tra quantità e qualità esiste un rapporto diretto e reciproco, per cui risulta difficile stabilire priorità. È nato prima l’uovo o la gallina? Difficile rispondere, anche se risultano chiari alcuni concetti.
Questa rivoluzione non ci sarebbe stata o sarebbe arrivata lentamente, nel tempo, senza l’evento scatenante del lockdown, uno shock improvviso che ha cambiato per decreto le nostre vite. Come tutte le cose a cui siamo abituati, anche il lockdown comincia ad apparirci “naturale”, “necessario”, “opportuno”.
E allora, anche se ormai la storia e i suoi monumenti ci appaiono come impedimenti di cui dovremmo liberarci in vista del futuro, voglio passare in rassegna il passato per trovare eventuali precedenti.
E, per quanto ne so, almeno in Occidente non esistono casi simili. Ci sono precedenti di pandemia che hanno segnato fratture epistemologiche e storiche importanti: un’epidemia pone fine al Medioevo e apre le porte al Rinascimento. Ma sempre, allora, erano gli infetti a essere reclusi nei lazzaretti, non la totalità della popolazione.
Anche il grande internamento che segue l’espulsione dalle campagne con le enclosures, citato da Foucault nella sua Storia della follia nell’età classica, riguardava poveri, sbandati, disadattati, scarti della società, ma non la società tutta. Le istituzioni totali e i manicomi avevano il compito di separare il malato, il deviante, il delinquente dalla massa dei sani e dei virtuosi, proprio per non limitare la libertà di questi ultimi.
Nel lockdown sono i sani a essere isolati. Per ottenere un risultato per certi versi “contro natura”, era necessaria una regia centralizzata e costante, con un’operazione di propaganda sociale.
Se andiamo al nocciolo del lockdown, questo accentramento si realizza nella figura del Presidente del Consiglio, che convoglia su di sé la responsabilità delle scelte scavalcando il parlamento e facendo ricorso a decreti.
Il rapporto diretto tra esecutivo e popolo richiede una comunicazione diretta tra le due parti, e infatti per ogni decisione il premier ha cercato il contatto con gli italiani attraverso uno strumento come la diretta, che solo la tv generalista permette di utilizzare. Di qui, anche, l’esplosione in senso quantitativo dei consumi di televisione tradizionale.
Stesso discorso vale per i bollettini periodici della protezione civile sul procedere della pandemia. Roger Silverstone ha scritto che la televisione è atta a promuovere una sicurezza ontologica, secondo la teoria di Anthony Giddens, e questa sicurezza è trasferita dalla televisione al virus, che diventa un argomento non negoziabile.
L’utilizzo diretto dei media da parte del governo materiale e spirituale, a scopi e fini sociali, è un uso pedagogico dei media.
Ho scritto più volte che la funzione educativa del servizio pubblico televisivo delle origini era possibile per la natura particolare del medium allora: un solo canale, senza telecomando né scelta. L’indottrinamento del pubblico era possibile perché questo era privo di alternative.
Oggi il legame tra esecutivo e pubblico è stato costruito su due punti di forza. Da un lato, una sorta di omologazione dei palinsesti sul tema della pandemia, premiata da un’audience fortemente concentrata sul tema. Dall’altro, e di conseguenza, la ricerca spasmodica da parte del pubblico di informazioni atte a placare un’ansia prodotta dallo stesso bombardamento mediale. Un’interazione di azione/reazione, capace di creare un corto circuito informativo ossessivamente concentrato sul virus. Chiunque si interessi di comunicazione sa come in genere i cambiamenti di mentalità del pubblico siano lenti.
Teorie come la Coltivazione o la Finestra di Overton 2 richiedono nel primo caso un’esposizione costante e protratta nel tempo al messaggio da inculcare, nel secondo il passaggio per più tappe successive che rendono un tabù prima discutibile, poi accettabile. Qui invece ha funzionato lo shock descritto da Naomi Klein nel libro “Shock Economy”, con un elemento rafforzante.
Shock legati a disastri naturali o al terrorismo non hanno la stessa forza intimidatoria della pandemia, appaiono legati al caso e solo alcuni ne saranno vittime, in una sorta di roulette russa, con un solo colpo nel caricatore. La pandemia è per tutti, è una pistola carica, soprattutto se il lockdown ne ribadisce l’universalità con l’internamento generalizzato.
La rinascita della tv generalista
Il coronavirus ha prodotto molte morti ma ha causato almeno una resurrezione, e per di più in un corpo che, come tutte le vittime del coronavirus, appariva debilitato, in crisi e destinato a estinguersi rispetto ad antagonisti più forti e giovani.
Il Covid ha fatto risorgere la televisione generalista facendo leva su quello che era il settore più in crisi: l’informazione. Da tempo, vedeva le sue audience erose dai media digitali e dalle reti tematiche. La sua funzione di aggregatrice di massa di spettatori nell’unità di tempo era in crisi, e così il suo specifico, l’informazione, da tempo sostituita dall’infotainment.
Venuta meno la funzione pedagogica di servizio pubblico, la tv generalista aveva conosciuto un nuovo ruolo fondante con l’avventura della Seconda Repubblica, diventando il centro del dibattito pubblico, l’agorà dove si dibattono i problemi comuni: nasceva il talk politico come strumento di comparazione e confronto di verità diverse. Ma questo era venuto meno negli ultimi anni, a favore dell’intrattenimento. Il mercato ha fatto il resto.
La rivoluzione introdotta dal coronavirus è evidente sia sul piano quantitativo delle audience sia al livello qualitativo dei contenuti. La Rai è tornata ad avere nelle dirette di Conte audience superiori ai dieci milioni, degne degli eventi sportivi. Non solo, i messaggi pubblicitari e l’intrattenimento, anziché dettar legge, si sono allineati al contesto, con la scelta di temi sociali e la costante esibizione di presidi sanitari, come le mascherine. Com’è stato possibile tutto questo?
La televisione, nella visione di Daniel Dayan ed Elihu Katz, è un veicolo di grandi cerimonie. Ho sperimentato sulla mia pelle da direttore di rete che il modo migliore per avere attenzione è creare un evento. Il coronavirus è un grande evento ininterrotto, in scena da mesi, al cui interno trova spazio una comunicazione istituzionale che rappresenta una forma di grande cerimonia condivisa.
Per vedere le fondamenta della rinascita della tv generalista, è utilissimo uno studio come quello di Massimo Scaglioni 3, che àncora il discorso a dati quantitativi e sembra confermare la frase profetica di Derrick de Kerckhove: la viralità del virus si unisce alla viralità dei media 4.
Viene spontaneo chiedersi se senza l’incubatore della televisione la lettura del coronavirus avrebbe preso la stessa strada. Agli inizi il discorso sul coronavirus è incerto e mette in crisi la credibilità di una scienza parcellizzata in teorie tra loro contraddittorie 5; il successivo passaggio al lockdown e quello da forme di comunicazione conflittuali come il talk show al discorso istituzionale, è premiato da audience bulgare e conosce in questa fase il maggior successo. La tv sembra aver ritrovato la centralità che rendeva possibile la somministrazione al pubblico di messaggi pedagogici.
Il lockdown è stata una forma ancora più forte di costruzione all’ascolto perché, grazie anche al digital divide, la tv era l’unico legame con il “fuori”, almeno per le fasce più adulte della popolazione. L’istituzionalità dei messaggi ha fatto il resto, avallando uno scenario di guerra in cui il fronte era costituito dal governo e dai medici, e le retrovie da un popolo che cantava sui balconi.
Ma ogni volta che si mette in moto un evento, la sua narrazione incide sull’evento stesso. Il protrarsi del lockdown unito all’esplosione dell’audience può aver inciso sulle scelte politiche del Paese e aver imposto poi il modello italiano, più o meno emendato, agli altri Paesi dopo di noi.
I social dalla dimensione individuale all’impegno sociale
Il boom del formato generalista non ha sottratto pubblico ai social, che hanno conosciuto a loro volta un incremento rivoluzionario. Come dichiarato da Angelo Mazzetti, di Facebook Italia, «i social sono diventati il luogo dove si stanno concentrando le conversazioni degli italiani, abilitandoli a tenere vive le connessioni a distanza […]. Ma i cambiamenti non riguardano solo il tempo di utilizzo: come spesso accade in tempo di crisi, le persone utilizzano Facebook in modo davvero sorprendente, in particolare per supportarsi e aiutarsi a vicenda. L’Italia è un grande esempio in questo senso: stiamo vedendo per esempio che la gente usa Facebook per offrirsi di andare a prendere la spesa o a portare a spasso i cani per i vicini più anziani, inviare newsletter giornaliere con attività per intrattenere i bambini mentre le scuole sono chiuse e persino assistere a spettacoli teatrali in streaming. Più di 3 milioni di italiani fanno, infatti, parte di gruppi di supporto istituiti per fronteggiare l’emergenza Covid-19».
Un incremento così massiccio dei consumi dei media non ha precedenti. Una causa può essere il tempo libero generato dal lockdown. Un’altra causa è il tentativo di convertire questi media, per definizione individuali e volti a soddisfare bisogni specifici, verso una sorta di dimensione generalista.
In questa fase drammatica, i social sembravano infatti proporsi a loro volta come tutori del bene comune e della salute pubblica, creando pagine apposite e invitando gli utenti a consultare le informazioni messe a disposizione.
Sui social, da Twitter e Facebook, ha fatto una vistosa comparsa la censura, in senso visibile e insistente. Molti post sono stati cancellati perché non rispondenti alle regole della comunità, molti siti sono stati chiusi. Facebook ha avviato sovvenzioni da un milione di dollari destinate ai fact-checker. La vecchia censura artigianale impallidisce di fronte a questo schieramento di mezzi. Da tempo il mito della libertà della rete è abbandonato. Evgeny Morozov ne “L’ingenuità della rete” e Shoshana Zuboff ne “Il capitalismo della sorveglianza” hanno sottolineato come marketing e algoritmi selezionino a priori in maniera discreta i messaggi che avranno visibilità, distinguendoli da quelli che invece non saranno riprodotti.
Ma tutto avviene dietro le quinte. La pandemia ha segnato invece la comparsa di una censura visibile e palpabile, che mi ricorda quella che nella mia infanzia bloccava al cinema e in tv i contenuti lesivi del “comune senso del pudore”.
Questa censura però procede a tappeto con scientifica efficienza, con l’obiettivo puntato sulle fake news. E non a caso sullo stesso argomento è in lavorazione una legge in parlamento. Ma per comprendere davvero il problema è necessario capire cosa significhi fake news.
Come fa notare Capace Minutolo 6, la traduzione italiana può indurci in errore: «esistono diversi concetti di verità a cui rapportarsi per distinguere il vero dal falso. Come italiani siamo abituati a concepire la verità come riferimento corretto a fatti reali e verificabili. La parola verità, attraverso il latino veritas, deriva infatti dal sanscrito vrtta, ossia fatto, evento, mentre il termine inglese truth deriva dal protogermanico treuwaz, che significa fede o fedeltà a qualcosa. In inglese l’espressione fake news ha più il significato di notizia sleale che di notizia falsa».
Se andiamo alla narrazione ufficiale della pandemia, è chiaro il senso di tradimento di ogni notizia che si discosti dall’ortodossia ufficiale avallata dall’Oms.
In questa ricerca dell’ortodossia e della solidarietà al governo, i social chiudono la forbice tra conformismo televisivo e dissenso della rete. Un social come Facebook non nasce per scambiarsi contenuti politici, ma per intrattenere rapporti con i compagni di scuola e i conoscenti: al centro c’è la storia di ognuno, il suo quotidiano e il suo status sociale. La convergenza verso dimensioni affini alla tv generalista come il gossip e il reality ha una sua logica. Il selfie, ma anche la pubblicazione ossessiva dei piatti cucinati, delle istantanee di viaggio, delle foto del cane e dei bambini, della rimpatriata con gli amici in trattoria, è un succedaneo in tono minore della casa del Grande fratello, spiata in ogni suo angolo, e del suo confessionale. La “normalizzazione” di internet sembra smussare le differenze principali tra le reti generaliste e gli spazi online.
I pubblicitari che lavorano sulla televisione generalista o sulle reti digitali e sui blog della rete hanno due modelli di consumo: l’evento e la coda lunga.
La tv generalista ha una vocazione “generale”, allargata, aperta, atta a catturare il pubblico più vasto possibile e a conseguire l’audience più vasta in un unico passaggio. Costruisce trasmissione per trasmissione, ora per ora, minuto per minuto i suoi contatti: come un indice di borsa, l’audience è fatta di picchi e di tonfi e ogni minuto di trasmissione è pensato per ottenere la migliore performance possibile qui e ora.
Le reti tematiche, come i blog specialistici, costruiscono le audience nel tempo, cumulando contatti giorno per giorno.
Spesso un flop si ribalta in oggetto di culto e dopo un esordio deludente un programma, o un tema, iniziano a farsi virali, a raccogliere e moltiplicare contatti. Quando scrivo che il presidente Conte ha raccolto sulla tv generalista circa dieci milioni di spettatori, mi riferisco al singolo intervento istituzionale. Quando scrivo che un post ha raggiunto circa dieci milioni di contatti, intendo in un tempo indeterminato e indeterminabile, perché la raccolta è ancora in corso.
Da tempo, con le piattaforme on demand, la generalista perdeva contatti, per la tendenza del pubblico a costruire il consumo in base ai suoi interessi individuali. Assistevamo in diretta all’eutanasia del palinsesto, del suo grande orologio sociale. La pandemia, con la sua gestione ministeriale accentrata, ha creato una sorta di nuovo palinsesto, che non solo ha rianimato il modello generalista, ma ha finito per risucchiare anche i social in questo cerimoniale sociale.
1 Fonte Agenzia Italia, 22 maggio 2020.
2 Joseph P. Overton era il vicepresidente di un think tank statunitense. La sua teoria parte dalla constatazione che in ogni periodo storico esistono temi e certezze condivisi da tutti e tabù innominabili. Chi fa propaganda deve essere in grado di trasformare un tabù in un argomento condiviso. La finestra inquadra in ogni momento quello che può essere detto senza incorrere nella riprovazione pubblica. Per rendere accettabile un tabù, bisogna procedere spostando progressivamente la finestra fino a ottenere lo scopo. Si tratta di introdurre l’argomento da normalizzare come inaccettabile: il solo fatto di prenderlo in considerazione permette i futuri sviluppi della discussione. Da impensabile, diventa radicale, accettabile, sensato, diffuso, legalizzato.
3 M. Scaglioni, “Il virus sullo schermo. Il sismografo televisivo e la mediazione della crisi”, in M. Sala e M. Scaglioni (a cura di), L’altro virus, Vita e Pensiero, Milano 2020, ebook.
4 D. de Kerckhove, “La natura virale dell’informazione incontra la natura virale del contagio”, in Media Duemila, 4 marzo 2020.
5 A. Sfardini, “Come comunicare la pandemia? Credibilità e fiducia delle fonti istituzionali nell’informazione italiana sul Covid-19”, in M. Sala e M. Scaglioni (a cura di), L’altro virus, cit.
6 “Epidemia e postverità”, in ilsimplicissimus2.com, 24 aprile 2020.
da “Link, idee per la televisione: Dopo l’evento. I media e la pandemia”, numero 26; ottobre 2020