Organizzazione, formazione, engagement. Sono i tre assi lungo i quali si stanno muovendo le aziende italiane alle prese con la nuova dimensione del lavoro generata dalla pandemia. Nella gestione della “nuova normalità”, la preoccupazione maggiore di manager e responsabili delle risorse umane è garantire il coinvolgimento dei dipendenti, anche a distanza. Con una forte attenzione, però, ai costi. E in una fase in cui domina l’incertezza, l’apertura al cambiamento c’è, ma non è ancora elevata.
È quello che è emerso da un’indagine realizzata da Ipsos, The Adecco Group, Intesa Sanpaolo e Università Bicocca tra 450 imprese italiane, ascoltando le diverse figure professionali impegnate a governare il cambiamento in corso.
Alla domanda “Cosa la preoccupa di più?”, il 33% degli intervistati risponde che l’urgenza principale è che i dipendenti rimangano coinvolti e produttivi. Mentre per il 29% la preoccupazione principale è che i team leader siano in grado di gestire le risorse. E quasi un terzo è preoccupato anche dalla necessità di definire un modello organizzativo adattandolo alle oscillazioni di mercato.
Per mantenere alto il coinvolgimento dei dipendenti, oltre la metà degli intervistati sostiene che sia necessario dimostrare forte attenzione alla salute e alla sicurezza (56%), ma anche fiducia nei confronti dei lavoratori (53%). Quasi la metà (46%) ritiene inoltre che sia giusto informare sulla strategia dell’azienda e spiegare nel dettaglio le scelte.
«Davanti a un cambiamento disruptive, per le imprese diventa cruciale mantenere un rapporto ben saldo e consolidato con i propri dipendenti», conferma Ilaria Ugenti, Corporate Reputation Leader di Ipsos. Le soluzioni digitali, insomma, abilitano a lavorare a distanza, ma in questo momento si punta soprattutto a mantenere il legame tra impresa e dipendenti. Non a caso, ricorda Ugenti, «la tecnologia viene menzionata solo al settimo posto delle soluzioni».
Lo sforzo più grande riguarda i manager. «Prima abituati a risolvere le criticità con una chiacchierata informale alla macchinetta del caffè, oggi invece devono gestire l’agenda in maniera più definita, comunicare in maniera più trasparente e organizzata», spiega Mariangela Lupi, Head of Humanity Development and Education del gruppo Adecco. «Mantenere costante il flusso di informazione, garantire la salute, la sicurezza e la serenità dei dipendenti sono le leve per assicurare il coinvolgimento anche a distanza».
Certo, il passaggio dal modello di lavoro tradizionale a quello dell’ufficio diffuso a cui la pandemia ci ha obbligato non è stato automatico. «Molte persone non erano abituate a usare determinati strumenti», spiega Lupi, «ma tante aziende si sono attrezzate per fornire un aggiornamento sulle digital skill ai propri lavoratori».
Per far fronte all’emergenza, le soluzioni sono state diverse. «Le imprese hanno attivato forme di cassa integrazione parziale (32%) o totale (30%) e in molti casi hanno chiesto ai dipendenti di smaltire le ferie arretrate (42%)», racconta Anna Roscio, responsabile Direzione Sales and Marketing Imprese – Divisione Banca dei Territori di Intesa Sanpaolo. «L’80% dei lavoratori, a seguito di questa emergenza sanitaria, si è detto orgoglioso della propria azienda e il 67% ritiene necessarie le misure adottate dalla propria impresa».
E ora come vedono il futuro le imprese italiane? A dominare è l’incertezza, soprattutto davanti alla seconda ondata del virus. «Un terzo di imprenditori e manager è impensierito da prospettive di crisi e dalle sue conseguenze. La maggior parte delle imprese (58%) monitora con attenzione i propri costi come misura di forte contenimento a fronte dell’impatto sui conti dell’impresa», spiega Roscio. «Ci sono tuttavia anche alcune iniziative a medio lungo termine, come l’apertura di nuove linee di credito e il ricorso ad altre forme di aiuti pubblici grazie all’introduzione delle garanzie sui prestiti». E nei prossimi mesi, «ci sono alcuni elementi che potrebbero procrastinare i tempi per i pagamenti o una crescita di casi di difficoltà nel fronteggiare le scadenze, in chiusura d’anno».
Le più preoccupate sono le aziende più piccole, che però sono le più numerose nel nostro Paese. Difficile fare previsioni di spese e investimenti, davanti al virus che corre. «Un terzo delle aziende riesce a fare previsioni solo su scala trimestrale, un quarto pensa solo da qui al prossimo mese», dice Ugenti. «Per la maggior parte delle imprese l’orizzonte che può portare a una nuova normalizzazione è ancora abbastanza lungo: per il 41% le decisioni vengono rinviate a un anno, per il 39% la stabilità potrà essere raggiunta tra un anno e mezzo o due».
Certo, la difficoltà di fare previsioni di medio-lungo termine dipende anche dal settore in cui si opera. Ci sono settori che crescono in piena pandemia, come il farmaceutico, il sanitario o il mondo della logistica. Altri, dal turismo ai trasporti, dalle fiere alla ristorazione, che sono in stand by.
«C’è una forte attenzione ai costi, perché i prossimi sei mesi saranno cruciali per la tenuta del business», spiega Ugenti. «Ma c’è anche una forte spinta all’innovazione e al cambiamento. È sorprendente che in tutto questo la metà delle imprese intraveda comunque delle opportunità».
In base alla ricerca, però, le aziende non si sentono pronte per cambiamenti drastici. Per il 60% non ci saranno strappi, ma cambiamenti graduali. Solo l’8% sostiene che si cambierà radicalmente. L’apertura al cambiamento è “buona” per il 42% dei casi, ma per il 29% resta “scarsa”. E solo nel 12% delle aziende coinvolte è “elevata”.
«C’è la consapevolezza del fatto che sia necessario adottare nuovi modelli, però c’è anche il desiderio di dar luogo a questi cambiamenti senza forte discontinuità», conferma Ugenti. «Cambiare vuol dire saper apportare questo cambiamento e non sempre è semplice. Ci sono lacune nella preparazione delle aziende, alcune hanno bisogno di una guida e di una formazione culturale che implichi uno sforzo congiunto di manager e lavoratori».
Anche nella propensione al cambiamento delle aziende, molto dipende dal settore, da quanto è colpito. Il 35% delle imprese vede grandi opportunità nei prossimi mesi, soprattutto tra le aziende che sono nei settori in salute, mentre il 38% vede una situazione di crisi diffusa che non permette grandi investimenti. Un quarto è in una fase di attendismo.
Ma, dice Mariangela Lupi, «tante aziende non solo stanno accogliendo il cambiamento, ma lo stanno anche cercando. La voglia di cogliere le sfide c’è e la resistenza al cambiamento è qualcosa che stanno imparando ad affrontare».
L’impatto maggiore della digitalizzazione accelerata dal Covid19, secondo le figure aziendali intervistate, sarà nelle modalità di lavoro dei team e nei modelli di leadership. A seguire, saranno impattati i modelli organizzativi e anche le modalità di recruiting e la formazione. I comparti più esposti al cambiamento saranno invece quello commerciale, le risorse umane, il marketing e la comunicazione.
Di certo, il lavoro a distanza non sarà solo una parentesi. «L’esperienza positiva dello smart working è ritenuta dai lavoratori (33%) il principale lascito positivo di questa emergenza e fa prevedere che continuerà ad essere la modalità più utilizzata anche dopo la pandemia (31%), seguita da diverse forme di lavoro “agile” (28%)», spiega Roscio.
Un cambio di paradigma che coinvolge in primis i manager. «I capi dovranno imparare a gestire i team a distanza, procedere alla formazione da remoto, superare le logiche gerarchiche e garantire una comunicazione efficace anche non in presenza», spiega Lupi. «E insieme ai lavoratori bisognerà imparare a gestire carichi di lavoro in un orario che non è più 9-18, ma più flessibile, in base alle esigenze familiari. Oggi anche i manager devono imparare a essere aperti alla conciliazione tra vita privata e vita lavorativa».
Serviranno allora nuove competenze sia per chi è già in azienda, sia per le nuove figure che entreranno nei team. «Le aziende stanno mettendo la formazione del personale tra gli investimenti prioritari dei prossimi mesi (34%), e il 55% ha già pianificato i prossimi corsi, che saranno prevalentemente su informatica e digitalizzazione, su tecniche manageriali e organizzazione del lavoro e sulla comunicazione», dice Roscio. «Queste percentuali salgono tra le “aziende di successo” che fanno della valorizzazione e formazione del personale uno dei loro pilastri».
Non occorreranno solo competenze tecniche e digitali, però, ma anche soft skill. Che non sono le stesse del periodo pre-Covid. «Anche le soft skill stanno cambiando e si evolvono», dice Mariangela Lupi. «Servono agilità mentale, curiosità, flessibilità e pensiero laterale per gestire gli imprevisti. E non basta più la semplice empatia, ma serve essere capaci di social connecting, anche se non sei vicino fisicamente».