Tornare indietro non si può. Non solo per gli effetti di lungo periodo che lascerà la pandemia, bensì perché ripartire come se nulla fosse accaduto è sbagliato, anzi: controproducente. «Siamo in un momento storico in cui il capitalismo deve autoriformarsi». Lo dice Giovanna Melandri, ex ministro, economista, presidente del MAXXI e della Human Foundation, di cui è anche fondatrice. E la direzione da seguire è «quella degli investimenti a impatto, sociale e ambientale».
Poche parole che contengono una rivoluzione: «In un pianeta malato, sia a livello ecologico che per le disuguaglianze che dividono le persone», tutti i soggetti dell’economia devono lavorare alla sua guarigione, «concentrandosi su investimenti e iniziative per uno sviluppo più giusto e sostenibile».
Questo vale per le imprese del terzo settore, ma anche per il mondo del profit, per il pubblico e per la finanza, con l’obiettivo «di generare una nuova tipologia di asset class, dove oltre al rischio e al rendimento venga valutato un altro parametro, cioè l’impatto».
Tutto ciò dovrà estendersi a tutto campo, diventare – come si dice – mainstream e influire nelle modalità di investimento e di allocazione dei flussi finanziari. Si può fare? Forse si deve.
Del resto di economia di impatto si ragiona e lavora da almeno 10 anni, «con un andamento carsico». Nel 2013 Giovanna Melandri ha fatto parte, insieme ad altri due economisti italiani (Mario Calderini del Politecnico di Milano e Mario La Torre della Sapienza di Roma) della task force promossa dall’allora primo ministro inglese David Cameron al Social Impact Investment Forum del G8 (quando la Gran Bretagna aveva la presidenza, ben «prima di quel disgraziato referendum sulla Brexit», commenta), sotto la guida di Sir Ronald Cohen, personaggio di primo livello nel mondo del Venture Capital.
Uno dei primi risultati del gruppo di studio, chiamato a elaborare linee guida per la misurazione dell’impatto – quasi un modello di riferimento per tutti i soggetti economici – «è il report “The Invisible Heart of Markets”, che si rifà nel titolo al classico concetto della “mano invisibile”, ma cambia orientamento: più di tutto il capitalismo ha bisogno di un cuore, cioè di una value proposition. È un sistema che ha vinto ma che, di fronte ai suoi limiti attuali, deve saper cambiare».
La task force è poi confluita nel Global Steering Group on Impact Investment (GSG) – del cui board mondiale Melandri fa parte, unica italiana – e nel 2016 i membri italiani hanno dato vita, anche grazie al lavoro della Human Foundation, al network Social Impact Agenda per l’Italia, la rete nazionale della finanza a impatto sociale, a cui fanno capo tutti gli attori italiani dell’ecosistema impact. Il compito è sempre quello: «Portare a terra, cioè nella pratica dell’economia, tutto il tema della sostenibilità, che è ambientale, sociale e legata alla diversity».
Non a caso la Human Foundation è definita «do and think tank», cioè pensiero e azione. «Il nostro è un luogo di riflessione ma anche una fabbrica di progetti e valutazioni». Lavorano «come consulenti per tutte le organizzazioni che vogliono misurarsi con l’economia di impatto». Sono imprese, esponenti del terzo settore, fondi e anche attori pubblici come Cassa Depositi e Prestiti.
Il risultato? È guardare ancora più avanti. «A livello ideale sarebbe necessario che ogni impresa e fondo abiliti un social impact manager, che valuti e misuri l’impatto come voce di bilancio integrata – e non come bilancio separato», ma «la leva principale scaturisce dal partenariato tra pubblico e privato». L’occasione è quella dei fondi del NextGenerationEU. «La nostra proposta è quella di convogliarli in iniziative con impatto sociale e ambientale importante».
Qui l’attore statale risulta fondamentale, «ma attenzione: non deve diventare una riproposizione dello Stato imprenditore. Non vogliamo questo. Piuttosto, deve assumere funzioni di indirizzo e capacità abilitanti, ingegnerizzando meccanismi di partnership tra pubblico e privato», che sappiano suscitare le iniziative private e favorire lo sviluppo di economie e settori.
Per i fondi europei, nello specifico, «l’idea è di organizzarli secondo il principio del «”pay by result”, dove le risorse pubbliche finanziano i risultati ed evitano gli sprechi». È l’incrocio tra investitori privati e imprese innovative a impatto, affinché realizzino risultati indicati dal decisore pubblico.
La leva statale risulta fondamentale anche a livello culturale: «L’Italia ha una importante tradizione legata al terzo settore e all’impresa sociale. E tra l’altro sono ore complicate, con una importante battaglia del Forum del terzo settore sull’articolo 108 della legge di Bilancio, che sosteniamo, perché non è certo questo il momento di aggravare di costi e burocrazia l’Italia della solidarietà e dell’innovazione sociale. Ma, come ha detto in un intervento recente Papa Francesco, con cui sono d’accordissimo, non può diventare “il palliativo di un’economia che non funziona”. In altre parole: la dimensione dell’impatto deve penetrare tutta l’economia e cambiarla».
Senza eccezioni: dal mondo dei fondi a quello degli attori tradizionali. Tutti devono essere coinvolti, sviluppando investimenti mirati e adottando buone pratiche. «L’impatto sociale non deve essere una finalità, ma deve funzionare come una scaturigine dell’investimento».
Ma come si misura? «Questa è la domanda delle domande». Al momento ci sono diversi schemi, un esempio è lo SROI (cioè il Social Return on Investment). In quest’ottica «il nostro obiettivo è quello di arrivare a una contabilità finanziaria integrata ed è per questo che con la Harvard Business School stiamo lavorando alla sfida metodologica degli IWAIs, Impact Weighted Accounts Iniziative. Noi vogliamo conti finanziari soppesati anche sull’impatto sociale».
Se ci si pensa, più che una autoriforma, questa è una auto-rivoluzione: i meccanismi di accounting finanziario sono di lunga data e affondano le proprie radici nel dopoguerra. Da quel momento hanno subito aggiustamenti e rielaborazioni in corsa. Il tema dell’impatto vuole rimescolare le carte, riproporre nuovi modelli (e mentalità) e stabilire schemi di riferimento unici – indispensabili per rendere comparabili i progetti, le sfide e la portata delle iniziative, anche agli occhi degli investitori – andando a confluire anche nella revisione dei bilanci.
È una nuova alba? Melandri parla di «capitalismo 4.0» e lascia pochi dubbi al riguardo, anzi: nessuno. Il futuro è a impatto. Soltanto, rimane la preoccupazione che l’Italia perda (anche) questo treno. Ma si lavora perché non succeda.