«Il Parlamento Europeo sta cercando di uccidere politicamente il governo Orbán». Sono parole forti quelle di Enikő Győri, ex ministro degli Esteri ungherese e ora eurodeputata di Fidesz, il partito del premier magiaro. Győri spiega a Linkiesta le ragioni del veto di Budapest al bilancio dell’UE, mossa che lascia in stand-by anche i 750 miliardi di euro del Next GenerationEU e affonda l’Europa tutta in una nuova crisi negoziale. Per farlo prova a ribaltare le accuse: dal suo punto di vista non è l’Ungheria a ricattare l’UE, ma l’esatto contrario.
Veto unica scelta possibile
Il nodo cruciale è noto: il meccanismo che condiziona l’esborso dei fondi comunitari al rispetto dello Stato di Diritto. Uno strumento inaccettabile per Győri, che rivendica la scelta del veto come unico rimedio possibile: «Abbiamo usato uno strumento poco frequente, ma legittimo, per bloccare qualcosa che secondo noi distruggerebbe il funzionamento dell’Unione Europea».
La reazione ungherese parte dal presupposto che le istituzioni europee abbiano cambiato le carte in tavola rispetto allo storico accordo del Consiglio Europeo di luglio, che istituiva il Next GenerationEU. «Allora fu concordato un meccanismo di sorveglianza dello Stato di diritto, ma non si disse che sarebbe stato legato ai fondi europei. Se fosse stato inserito in questi termini, l’Ungheria non avrebbe mai votato a favore. Ora tocca alla presidenza tedesca trovare una soluzione», attacca Győri lasciando intendere che il veto ungherese cadrebbe subito rimuovendo il meccanismo.
In realtà i punti 22 e 23 del testo ufficiale di quell’accordo sottolineano l’importanza di proteggere sia gli interessi finanziari dell’Unione che lo Stato di Diritto e annunciano che un meccanismo di condizionalità sarebbe stato introdotto. Certo, la formulazione era alquanto vaga, requisito necessario proprio per convincere i leader di Polonia e Ungheria a mettere la propria firma.
Al momento di trasformare le parole in fatti, i nodi sono puntualmente venuti al pettine: il Parlamento Europeo ha chiesto un meccanismo stringente e la Presidenza tedesca del Consiglio ha accolto le sue istanze nei negoziati interistituzionali, sperando poi di farlo digerire anche ai capi di Stato e di governo più recalcitranti. “Il meccanismo darebbe nuovi poteri alla Commissione Europea, che negli ultimi anni si è scontrata spesso con il governo ungherese su temi come immigrazione e valori conservatori. Ma queste sono competenze nazionali: a casa nostra dobbiamo decidere noi, non Bruxelles”, rimarca la deputata.
Su una cosa però probabilmente ungheresi (e polacchi) concordano con le istituzioni comunitarie: lo strumento è un modo efficace per imporre la supervisione europea su determinate politiche nazionali. Solo che per Commissione e Parlamento si tratterebbe di un successo, dopo anni di raccomandazioni e risoluzioni cadute nel nulla e due procedure di Articolo 7 innescate ma mai portate a termine.
Per gli Stati interessati da questo controllo, invece, è un’ingerenza ingiustificata: «Abbiamo la sensazione che sia stato pensato appositamente per punire l’Ungheria», sostiene Győri, affermando che il suo partito non è contrario al rispetto dei diritti fondamentali, quanto piuttosto al modo di farli rispettare. «Gli ungheresi tengono alle loro libertà, per cui hanno lottato ai tempi dell’URSS. Ma questo strumento, secondo noi, non è conforme ai Trattati europei».
Per l’eurodeputata, infatti, le regole europee già in funzione bastano e avanzano: «La Commissione ha contestato molte volte le nostre politiche con procedure di infrazione: in diversi casi si è arrivati fino alla Corte di Giustizia Europea e quando abbiamo perso, abbiamo sempre accettato le sentenze».
Il procedimento delle procedure di infrazione però è un’arma di precisione: lenta, limitata a singoli provvedimenti o comportamenti di uno Stato e soprattutto attivabile solo a cose fatte. Il meccanismo di condizionalità invece è un carro armato: si innesca pure a fronte di un rischio di violazione, non può essere fermato dal veto perché si approva a maggioranza qualificata in Consiglio e soprattutto spara sul bersaglio grosso: i fondi europei, di cui tra l’altro Polonia e Ungheria sono in assoluto i primi beneficiari netti.
Perciò i rappresentanti di Fidesz al Parlamento Europeo non ci stanno, arrivando a contestare l’obiettività della Commissione nel valutare le violazioni e persino la definizione di Stato di Diritto.
L’Ungheria contro l’Europa federale
Questa tesi emerge chiara, oltre che dalle parole di Enikő Győri, anche da una lettera interna ottenuta da Linkiesta, che il capo-delegazione di Fidesz Tamás Deutsch ha inviato ai suoi colleghi del Partito Popolare Europeo: «Lo Stato di Diritto non è un insieme di valori chiaramente definito, ma piuttosto un principio legale, a cui ovviamente aderisce anche l’Ungheria. Ma l’interpretazione arbitraria di questo principio potrebbe portare a procedure motivate da valutazioni politiche contro gli Stati Membri». Stando a questa visione, la prospettiva si inverte e sono le istituzioni europee, non l’Ungheria, a violare i valori fondamentali: «Non si può difendere lo Stato di Diritto violandolo, cioè venendo meno ai Trattati» scrive Deutsch, con buona pace dell’Articolo 2 del TUE, che sottolinea il tema come punto cardine dell’Unione Europea .
Ci sarebbe da chiedersi chi può allora valutare il rispetto dello Stato di Diritto, se gli ungheresi non si fidano del giudizio della Commissione Europea, né del Parlamento, né dei loro partner nazionali, visto che comunque ogni accertamento di violazione richiederebbe una maggioranza di Stati disposti a riconoscerla.
In questa perenne diffidenza reciproca fra Bruxelles e Budapest, vale la pena ricordare che Fidesz appartiene comunque alla famiglia del Ppe, la stessa di Ursula von der Leyen che detiene la maggioranza nell’Eurocamera, anche se la sua membership è sospesa e le visioni con tanti alleati sono ormai distanti.
«Oggi il gruppo è cambiato, molti dei partiti popolari sono attraversati da tendenze liberali. Noi invece ci ispiriamo ai valori conservatori tradizionali del Partito Popolare Europeo, quelli di Helmut Kohl e della democrazia cristiana», incalza Győri, che rifiuta categoricamente la possibilità di spostarsi più a destra nell’emiciclo, magari abbracciando la coalizione dei Conservatori e Riformisti Europei (Ecr), dove comanda il partito di governo polacco (PiS) compagno di tante battaglie contro la Commissione. «Ci sono partiti nel Ppe che vogliono liberarsi di Fidesz. Ma non tutti, per fortuna: non siamo noi che abbiamo tradito i valori del gruppo».
Alla base di queste incomprensioni sembra esserci però una divergenza di fondo, per cui la maggior parte dei popolari europei esige standard minimi democratici da concordare a livello comunitario e rispettare in tutti i 27 Paesi. Fidesz, al contrario, rigetta qualsiasi pulsione federalista e rivendica la sua politica interna: «Vogliamo un’Unione Europea dove gli Stati cooperino, ma rimanendo forti e autonomi.Vogliamo conservare l’Unione Europea com’era quando abbiamo aderito, nel 2004». E chissà se l’Ungheria di Orbán sarebbe entrata o meno nell’Europa di oggi.