Gli investimenti della Cina nella Belt and road initiative (Bri), la Nuova via della seta, si stanno riducendo mese dopo mese. I prestiti della China Development Bank e della Export-Import Bank of China sono crollati da un picco di 75 miliardi di dollari nel 2016 a soli 4 miliardi l’anno scorso. L’intero programma che non più tardi di tre anni fa Xi Jinping aveva definito “il progetto del secolo” sembra battere in ritirata.
«Tutto questo ridimensionamento riguarda ciò che ha imparato la Cina come potenza in ascesa: ha preso un modello difettoso che sembrava funzionare a casa, costruendo grandi progetti infrastrutturali, e ha cercato con arroganza di applicarlo all’estero», ha detto Jonathan Hillman, del think tank Csis, al Financial Times.
In un lungo articolo firmato da James Kynge e Jonathan Wheatley, il quotidiano britannico ha raccontato il cambiamento di prospettiva del colossale progetto cinese, passato da promesse di spesa di circa un trilione di dollari (circa sette volte quello che gli Stati Uniti hanno speso con il Piano Marshall dopo la Seconda guerra mondiale, adeguando le cifre in base all’inflazione) per la costruzione di infrastrutture – soprattutto nei Paesi in via di sviluppo – a quella che potrebbe diventare la prima crisi del debito estero della Cina.
«Storicamente, la maggior parte dei boom infrastrutturali si rivela un fallimento. E la capacità della Cina di scongiurare questo destino dipenderà dalla sua capacità di rinegoziare prestiti con i Paesi che ora hanno urgente bisogno di alleggerimento del debito. Se la Cina non è in grado o non vuole fornire un sollievo sufficiente ai suoi mutuatari, potrebbe trovarsi al centro di una crisi del debito nei mercati in via di sviluppo», si legge nell’articolo.
I numeri delle due banche cinesi che forniscono la grande maggioranza dei prestiti all’estero, la China Development Bank e la Export-Import Bank of China, hanno lavorato per anni su numeri comparabili con quelli della Banca mondiale. «Tra il 2008 e il 2019, le due banche cinesi hanno prestato 462 miliardi di dollari, la Banca mondiale 467», scrivono gli autori dell’articolo.
Ma negli ultimi anni le risorse uscite dai due istituti cinesi si sono ridotti dai 75 miliardi del 2016 ai 4 del 2019, lasciando immaginare scenari di grosse difficoltà in tutto il mondo, si legge sul Financial Times: «Una riduzione così drastica dei prestiti da parte delle banche cinesi equivale a un terremoto. Se persiste aggraverà un deficit di finanziamento delle infrastrutture che solo in Asia ammonterebbe a 907 miliardi di dollari l’anno, secondo le stime della Banca asiatica di sviluppo. In Africa e in America Latina si prevede che il divario tra ciò che è necessario e ciò che è effettivamente disponibile possa allargarsi ancora».
Il ripensamento cinese, con conseguente ritirata dagli investimenti esteri, trova nelle relazioni con gli Stati Uniti di Donald Trump una spiegazione: una spiegazione parziale ma valida. « È anche una risposta alle tensioni tra Stati Uniti e Cina durante la presidenza di Donald Trump, quando Washington ha usato le critiche alla Belt and Road come giustificazione per contenere la Cina», ha detto al Financial Times il professore di finanza all’Università di Hong Kong Chen Zhiwu.
La guerra commerciale, se così la si può chiamare, tra Stati Uniti e Cina ha indotto Pechino a ridurre i prestiti all’estero per concentrare le spese a livello nazionale. Non è un discorso meramente economico, di bilanci tra entrate e uscite: «Nei media cinesi nazionali la Belt and Road initiative viene citata meno di frequente negli ultimi anni. E mi aspetto che il ridimensionamento prosegua», ha detto il professor Chen Zhiwu.
Questa strategia di rimodulazione degli investimenti da parte di Pechino prende il nome di Dual circulation policy, politica della doppia circolazione. Un’espressione usata per la prima volta in una riunione dell’Ufficio politico del Partito Comunista Cinese lo scorso maggio che indica la strategia che pone maggior enfasi sul mercato interno – quindi sulla circolazione interna – che sul commercio con l’estero.
«Molti analisti ritengono che questo ripensamento totale della Cina sulla Belt and road interessi principalmente le modalità di prestito all’estero: un nuovo approccio potrebbe essere quello dei prestiti attraverso organismi multilaterali come la Banca asiatica per gli investimenti in infrastrutture; inoltre, le istituzioni finanziarie cinesi potrebbero cooperare maggiormente con le agenzie di prestito internazionali», scrive il Financial Times.
Ma è importante sottolineare come il progetto iniziale sia incappato in errori strutturali che esulano dal contesto esterno, non hanno nulla a che vedere con la politica di Donald Trump o altri fattori simili: almeno in alcuni aspetti la Nuova via della seta è stata mal concepita.
Il Financial Times lo spiega partendo dalle foto del Belt and Road Forum per la cooperazione internazionale del 2017 – la sede in cui Xi Jinping ha dichiarato la sua ambizione di “progetto del secolo”. Proprio quel giorno era possibile individuare il «difetto fatale», così lo definisce il quotidiano, del programma.
«Accanto a Xi Jinping c’erano i leader autoritari di Paesi con grandi debiti e un rating di credito molto basso, come Alexander Lukashenko della Bielorussia, Hun Sen della Cambogia, Aleksandar Vucic della Serbia, Uhuru Kenyatta del Kenya e molti altri. La sostenibilità del debito, quindi la capacità dei paesi debitori di restituire i prestiti ricevuti, doveva essere parte fondamentale nella valutazione della Belt and road initiative», si legge nell’articolo.
A questo punto il problema è cosa farne di tutta questa impalcatura messa in piedi per un progetto colossale che si sta rivelando intrinsecamente fragile. Difficile però immaginare che sia del tutto abbandonato: Xi Jinping ci ha investito e creduto così tanto che non lascerà perdere.
Ma ristrutturare la proposta in modo che sia sostenibile sul lungo periodo, sostenibile per i debitori e quindi per la Cina, non sarà semplice. Il caso del Venezuela aiuta a spiegare. Tra il 2007 e il 2013 la China Development Bank ha prestato al Venezuela quasi 40 miliardi di dollari, consolidando il rapporto con il Paese allora governato da Hugo Chávez. Ma lo schema non è cambiato dopo la morte del “Comandante”: Pechino ha prestato altri 20 miliardi tra il 2013 e il 2017 durante la presidenza di Nicolás Maduro.
Ma i debiti accumulati da Caracas hanno spinto il Paese verso il default.
«I funzionari cinesi della politica estera e delle banche politiche sono entrati hanno approcciato alle relazioni economiche e politiche con il Venezuela con una combinazione di arroganza, ambizione e ingenuità che ha contribuito alla peggiore crisi economica, umanitaria e politica della regione degli ultimi decenni», ha detto Matt Ferchen di Merics, un think tank di Berlino.
Non c’è solo il Venenzuela, ovviamente. E la crisi economica dovuta alla pandemia ha travolto diverse economie, soprattutto le più fragili, rendendo praticamente impossibile la restituzione del debito da parte di quei Paesi. Un rapporto della società di consulenza Rhodium Group stima che nel 2020 almeno 18 Paesi hanno rinegoziato il loro debito con la Cina, e 12 erano ancora in trattativa con Pechino alla fine di settembre.
Fin qui Pechino sembra intenzionata a portare avanti il suo programma, provando a rimodulare i prestiti e gli interessi. Ma dietro quello che doveva essere il “progetto del secolo” della Cina sta montando un crescente senso di incertezza.