Tra i miei amici e George Clooney ci sono tre zeri di differenza. Sono quelli che, se ho capito bene (avevo pessimi voti in matematica), differenziano la soglia dell’ipotizzata patrimoniale, cinquecentomila euro, da quello che dovrebbe essere il patrimonio di Clooney.
Se la marca di tequila che hanno venduto lui e i suoi due soci è stata pagata un miliardo di dollari ed erano in tre, siamo già a più di trecento milioni. A quelli vanno aggiunti i proventi d’un ventennio abbondante di vita da star del cinema, testimonial di capsule di caffè, insomma vuoi non arrotondare e piazzarlo a tre zeri più dei miei amici ricchi?
I miei amici ricchi non sono poi così ricchi. Per dire: gli aerei privati li prendono a noleggio. Ci pensavo qualche mese fa, mentre nel posto centrale d’un volo low cost viaggiavo schiacciata tra uno che sextava in inglese maccheronico una che dal nome era slava, e uno che non aveva abbassato il trillo delle notifiche d’un’asta di eBay di chitarre elettriche. Pensavo: che viaggio da miserabili, ma mai come quelli che sono così pezzenti che gli aerei privati li prendono a noleggio.
Avere amici ricchi è importantissimo, giacché in periodi di furibonda miseria come questo la classe media si scopre tutta al verde, e quindi devi andarti a cercare gli interlocutori meno impoveriti per fare la mia cosa preferita: lagnarti della tua miseria. Col rischio di veder comunque scattare la peggiore delle sindromi: il «sapessi io».
Clooney, par di capire, non è uno da «sapessi io». L’edizione americana di GQ l’ha intervistato, a proposito d’un qualche film che sta per uscire (l’essere Clooney l’ultimo divo sta anche nel fatto che nessuno si prende la briga di ricordarsi i titoli: è un film con Clooney, che altro vuoi sapere?). E gli ha chiesto conto d’una cosa che raccontò tempo fa uno dei soci della tequila, uno dei migliori amici di Clooney, un tal Rande Gerber che incidentalmente è il marito di Cindy Crawford (i miei amici hanno tre zeri di meno e tutti amici con mogli non stratosferiche).
Insomma, è il 2013. Clooney ha conosciuto da poco la donna «più importante di me» (l’ha detto lui, a una tv americana: non diventi l’ultimo divo se non sai dire sempre la cosa giusta) che diventerà sua moglie e la madre dei suoi figli.
Non stanno ancora insieme, rievoca, e lui ha «un po’ di soldi»: non ha ancora venduto la tequila ma è stato pagato per “Gravity” con una percentuale sugli incassi, «perché pensavano sarebbe stato un insuccesso, e invece si rivelò un buon affare» (un film in cui due astronauti che si sono chiusi fuori dalla stazione spaziale fluttuano: ve l’ho detto che conta solo ci sia George Clooney).
Quindi pensa: non ho una moglie, non ho figli, ma ho i ragazzi. I suoi amici. Quelli sui cui divani ha dormito quand’era in bolletta. Quelli che l’hanno aiutato quando gli serviva. Sono quattordici, i ragazzi. Se finisco sotto un autobus i soldi li lascio a loro: ma perché aspettare di finire sotto l’autobus? Quindi s’informa: come si fa a prelevare quattordici milioni in contanti?
Descritta da lui sembra la trama d’un “Ocean’s”: servono il furgone, le guardie private, le apposite valigette per contanti. Poi li convoca a casa, è un giorno di fine settembre, e dice beh ragazzi, grazie a voi ho visto il mondo, ecco qua un milioncino in omaggio.
Lo stesso giorno di fine settembre d’un anno dopo, l’elenco di quello che Clooney non ha – una camicia bianca, un segreto in banca, ma soprattutto una moglie e dei figli – sarebbe diverso: in un anno succede tutto, e lo stesso giorno d’un anno dopo diventa il marito di Amal Alamuddin. Che finora era una strafiga nonché un pazzesco avvocato di diritto internazionale, e adesso io riesco a pensare a lei solo come la moglie delle barzellette che impugna il mattarello e dice: col cazzo che dai i soldi agli amici tuoi, con lo scaldabagno ancora da cambiare.
Mentre leggevo l’intervista pensavo ai miei amici ricchi. Ho escluso quelli cui la moglie col mattarello direbbe «con questi soldi ci compriamo una decappottabile nuova, altro che dare ristori a Soncini». Ho passato in rassegna solo gli scapoli. Quelli che non solo non mi hanno mai detto: ehi, è un anno di particolare pezzenteria, vuoi che vada a prenderti un milione in banca?; non solo non mi hanno mai regalato neppure una capsula del caffè pubblicizzato da Clooney; ma in queste settimane mi hanno anche intrattenuto con dolenti invettive circa l’ipotesi di patrimoniale. È uno scandalo, dicono loro, e io dico certo, come osano.
Fino a prima dell’annuncio della patrimoniale, le nostre conversazioni erano diverse.
Dicevo quant’ero in miseria e non sapevo come pagare l’affitto, e loro mi dicevano: ah, sapessi io. E adesso sono pentita d’essere stata così insofferente a quei «sapessi io, che vitaccia, che miseria, quasi sto pensando di dare in affitto una delle tre case di Roma, per quei quattro spicci».
Sono pentita perché prendere appunti sul bisogno umano di dover rilanciare su qualunque racconto altrui e di mettersi al centro della dolenza, immaginare un film in cui il mio amico latifondista si ferma davanti a un mendicante e gli dice «Buon uomo, sapesse quanti problemi ho io mi offrirebbe gli spiccetti contenuti nel suo cappello», ecco, gli appunti di prima erano molto meglio di quest’unica riga annotata sul mio blocco adesso, in cui c’è scritto: vendete tutto prima della patrimoniale, e recapitate una valigetta di contanti alla vostra deliziosa amica nullatenente, che mai vi ha lasciato dormire sui suoi divani ma che tanto ha fatto per il vostro intrattenimento quando eravate già ricchi. Cercate di somigliare più alle interviste di George, e meno ai vostri profili Facebook.