Quando finisce un’epoca? Quando ne comincia una nuova? E soprattutto: quanto ci mette a finire? È partendo da queste domande – e azzardando alcune risposte – che lo scrittore Paolo Di Paolo ha cominciato il suo percorso, lungo più di un secolo, tra gli anni ’20 del Novecento e quelli attuali. Il risultato è “Svegliarsi negli anni Venti”, saggio pubblicato per Mondadori, dove seguendo un filo lungo un secolo, intrecciato di ricordi, considerazioni e approfonditi riferimenti letterari, cerca di disegnare una sorta di linea di confine. Tra prima e dopo, tra passato e futuro, tra epoca finita ed epoca che sta iniziando.
Un progetto che nasce nell’anno della pandemia, ma l’idea – garantisce – era sorta ben prima: «sono un appassionato di calendari, date e ricorrenze. Seguo il fascino della nomenclatura e delle ricorrenze», Anni ’20, insomma, nuovo decennio. È anche una nuova epoca? «Questo genere di previsioni è pericoloso, perché è fatto per essere smentito subito dopo». Le date sono uno schema rigido, quelle che delimitano i periodi storici sono arbitrarie. Soprattutto, vengono fissate molto tempo dopo. «Il 1800 è finito nel XX secolo»: si è prolungato fino alla Prima Guerra Mondiale e poi è crollato. Non a caso il libro si apre con una lunga citazione di Franz Werfel, “Morte di un piccolo borghese”, che ritrae la malinconia di una epoca che muore, quella dell’Impero austro-ungarico, ormai travolto dalla Guerra.
Il protagonista se ne accorge in un momento qualsiasi, in un giorno qualsiasi. Il passato è andato, la storia ha svoltato e non tornerà. Si ritrova a dire «“Ai miei tempi”» e capisce. Ecco: dove finirà il XX secolo? «Si è pensato che fosse finito con l’11 settembre 2001, poi con la crisi del 2008. Difficile dire se questo 2020 sarà la data spartiacque. Di sicuro in queste cose la questione emotiva conta, e mostra già che un’interruzione c’è. Quando la si sente, è ovvio, c’è di sicuro».
Difficile però capire se si tratta di uno sbrego momentaneo o di un vero momento di frattura. «Quello che si registra è la disabitudine improvvisa, il doversi adattare a un orizzonte diverso, con ritmi diversi. È un fatto che viene presentato come del tutto nuovo, anche se non lo è, e i suoi effetti sono ancora da vedere».
Impossibile, a questo punto, non pensare ad Alessandro Baricco e al suo saggetto “Quel che stavamo cercando”, «lui utilizza una categoria molto complessa, quella del “mito”, per spiegare il nostro momento. Io non so dire se è vero che abbiamo evocato questa pandemia – non lo so – però in tanti proiettano in questa situazione paure e speranze. È una stagione assimilabile a un piano inclinato, che accelera verso tendenze precise. Ci può essere sollievo (soprattutto per una parte privilegiata della popolazione) o preoccupazione. E anche se adesso in tanti stanno “riottosamente” – è una parola che usa lui – rientrando nelle vite precedenti, l’incrinatura c’è, rimane. E secondo me è sana».
Perché? «La pandemia, a parte i suoi aspetti tragici, è stata uno scossone. Ci ha costretto a immaginare nuovi modi di vivere e lavorare. E l’integrazione del lavoro da remoto a quello in presenza era atteso da tempo ma mai davvero messo in pratica. Anche questo fa riflettere».
Non solo: il nuovo corso imposto dal virus ha ridisegnato anche il concetto di frontiere e confini. «Sono passati dall’essere tratti segnati su una carta – proprio quelli che alcuni signori in redingote, un pomeriggio a Versailles, avevano modificato soltanto tracciando alcune righe – a diventare invisibili barriere mentali: confini tra case, appartamenti. Delimitano spazi ridotti proprio come pochi mesi fa delimitavano i Paesi europei: uno come me, cittadino bianco, poteva attraversarli senza nemmeno accorgersene. Nessuno avrebbe chiesto passaporti o documenti. Al massimo sarebbe suonato il telefono per i messaggi inviati dalle nuove compagnie telefoniche».
Se il 2020 è un’incrinatura, come saranno gli anni che seguiranno? «A me non piace la storiografia dei corsi e dei ricorsi storici. Quello che è accaduto negli anni ’20 del XX secolo non deve per forza avere un corrispettivo negli anni ’20 del XXI. È un modo di guardare al presente con filtri condizionati dal passato, cercando avvisaglie e segnali. Eppure non è così. In ogni tempo convivono idee peggiori e idee migliori, pulsioni nobili e istinti bassi. Un esempio è proprio quello di Thomas Mann e del suo dimenticato “Considerazioni di un impolitico”. Lui passa per il democratico, l’uomo in fuga dal nazismo, il portavoce del pensiero illuminato, ma in quelle pagine decantava lo spirito germanico, ne appoggiava le rivendicazioni, si lanciava in deliri sulla sua superiorità. Come si spiega? Pagava anche il lui il prezzo del suo tempo, quello segnato da una sconfitta e da una punizione giudicata eccessiva».
Il prezzo di quest’epoca, invece, «è la sfiducia a ogni livello nei confronti della politica. La democrazia è infragilita: l’ondata populista sembra scemare pian piano ma qualcosa non mi lascia tranquillo. Non ci si fida più: la prospettiva è quella di un voto con solo schede bianche, come aveva immaginato José Saramago nel suo “Saggio sulla lucidità”».
Del resto quello di fronte sarà «un decennio di trasformazioni, credo che sarà diverso, molto diverso, dagli ultimi. Ci sarà richiesta capacità di resistenza e di trasformazione. Saremo tutti messi alla prova. Nel giro di poco, certe cose che ci sembrano attuali diventeranno antiche».
Per citare Thomas Mann (quello migliore), «“la nostra storia è diventata antica perché è avvenuta prima di una svolta”. E se certi strumenti per capire la realtà non funzionano più, a partire dai libri e dai giornali, allora saranno messi da parte. Verrà qualcosa di nuovo? È probabili. I parametri dell’oggi, anche quelli intellettuali, sono esausti da tempo».