«Funzioneranno come i semafori per le auto: metteranno ordine nel caos». La vice-presidente della Commissione Europea Margrethe Vestager sceglie una metafora suggestiva per presentare il Digital Services Act e il Digital Markets Act, due regolamenti che puntano a regolare il futuro del mondo digitale in Europa. Dalla protezione degli utenti alla trasparenza degli algoritmi, fino agli acquisti su internet: la proposta della Commissione abbraccia praticamente tutto ciò che può succedere online e prevede maxi-multe per le Big Tech inadempienti.
Da questo parto gemellare è lecito aspettarsi normative efficaci per contrastare lo strapotere delle grandi aziende digitali. Anche perché a battezzare i due regolamenti, che in quanto tali saranno testi legislativi vincolanti per tutta l’UE, sono due figure di primo piano, considerate a Bruxelles fieri avversari dei giganti della Silicon Valley.
Vestager, la Commissaria danese per l’Europa digitale, si è guadagnata sul campo il soprannome di Tax Lady affibiatole da Donald Trump, con le multe milionarie imposte a Google e le indagini su Apple e Amazon. Thierry Breton, il membro francese della Commissione deputato al Mercato Interno non è da meno. Da ex ministro dell’Economia ed ex ceo di Atos, una grande azienda di servizi IT, conosce bene la materia e fin dal suo insediamento spinge per un approccio aggressivo contro le company americane, per difendere gli interessi di quelle europee.
Digital Services Act: un regolamento in equilibrio
Le due «pietre miliari nella strada verso un’Europa adeguata all’era digitale», come le ha definite la vice-presidente, affrontano molti problemi legati all’ecosistema della rete. Il Digital Service Act, in particolare, si muove sul sottile equilibrio fra due problemi opposti: quello di arginare i contenuti illegali o nocivi su internet e quello di garantire la libertà d’espressione dei cittadini.
Per combinare le due necessità, viene previsto un meccanismo con cui gli utenti possono segnalare contenuti che le piattaforme devono vagliare, ma anche uno con cui gli stessi utenti possono contestare una rimozione. In questo modo, la Commissione spera di arginare i post incitanti all’odio sui social network, anche se la decisione sulla liceità o meno di un contenuto spetta sempre al sistema giudiziario degli Stati Membri. In pratica, Bruxelles non può decidere cosa è illegale e cosa no, ma può assicurarsi che tutto ciò che è illegale offline, secondo le leggi di quel Paese, lo sia anche online.
Le piattaforme saranno obbligate alla cooperazione con le autorità nazionali e a rimuovere i contenuti illegali. Solo quelli però: non potranno essere ritenute responsabili di messaggi offensivi ma leciti, perché il contrario le porterebbe a limitare ex-ante la possibilità di esprimersi degli utenti. Non che i cosiddetti “contenuti nocivi” non interessino la Commissione, che però ha elaborato una strategia diversa per contenerne il contagio: le grandi realtà digitali saranno sottoposte a organi indipendenti che valuteranno i rischi e dovranno fornire i propri dati agli istituti di ricerca.
Un’altra colonna del Digital Services Act riguarda la pubblicità online: le grandi compagnie utilizzano i dati raccolti sugli utenti, spesso tramite diversi servizi digitali, per proporre loro annunci mirati. La Commissione esige la trasparenza degli algoritmi usati per le raccomandazioni: chi riceve un suggerimento d’acquisto (o di like), deve sapere perché il proprio profilo è il destinatario perfetto di quella campagna pubblicitaria o se il post che gli appare è “sponsorizzato” da un committente che paga la piattaforma per renderlo più visibile.
Obbligatorio è anche il tracciamento degli utenti business, che utilizzano i propri profili online per vendere un servizio o un prodotto e che devono essere correttamente identificabili per evitare compravendite di merce illegale.
Digital Markets Act: l’Unione europea si difende dalle Big Tech
Queste piattaforme sono infatti anche e soprattutto grandi bazar commerciali. Qui interviene il Digital Markets Act: il commissario Thierry Breton assicura che si tratta di uno strumento legislativo “per” e non “contro” qualcuno, ma l’obiettivo è scritto nero su bianco. Sono i gatekeepers, cioè le mastodontiche realtà digitali che operano su diverse piattaforme e interagiscono con milioni di utenti, diventando così dei “ponti” necessari fra chi vende e chi compra in rete.
La loro è una posizione dominante, che comporta un enorme vantaggio competitivo e un conseguente sbilanciamento del mercato a proprio favore. La Commissione intende regolarne le attività, ma prima deve identificarle in maniera oggettiva.
Secondo il Digital Markets Act, si può definire gatekeeper un’azienda digitale con le seguenti caratteristiche: un fatturato di almeno 6,5 miliardi all’anno nei Paesi dello Spazio Economico Europeo o una capitalizzazione di 65 miliardi; la gestione di una piattaforma che permette la vendita di prodotti (come ad esempio Facebook o Google) con più di 45 milioni di utenti al mese; la presenza in almeno tre Stati dell’UE e una radicata posizione sul mercato, condizione che appare ovvia una volta soddisfatte le precedenti.
Saranno le aziende, europee e non, a doversi dichiarare gatekeepers e provvedere entro sei mesi a una serie dettagliata di adempimenti, una sorta di check-list con degli obblighi e dei divieti. Tra i primi c’è la possibilità di concludere una transazione fuori dalla piattaforma che favorisce l’incontro fra venditore e acquirente. L’idea è permettere di promuovere un prodotto su Amazon o Marketplace di Facebook e poi poterlo vendere senza concedere al gatekeeper la percentuale.
Anche i divieti comprendono pratiche volte a ridurre la posizione dominante delle grandi aziende, che non potranno ad esempio impedire di disinstallare i propri software dai propri device (è il caso delle applicazioni originarie Apple sugli iPhone) oppure utilizzare i dati sugli utenti ottenuti dai rivenditori operanti sulla piattaforma per competere slealmente contro i rivenditori stessi.
Per far sì che tutte queste indicazioni non restino lettera morta, la Commissione assumerà il compito di rendere efficace la legislazione, una volta che sarà approvata, istituendo un nuovo board europeo per i servizi digitali. Gli Stati Membri potranno comunque chiedere l’apertura di un’indagine per identificare un nuovo gatekeeper. E anche se sperano di non doverle utilizzare mai (parole loro), i commissari hanno pensato a imponenti sanzioni per chi non rispetta le regole.
Le multe andranno dal 6% (per violazioni al Dsa) al 10% (per violazioni al Dma) del fatturato globale di un’azienda tecnologica. Non cifre irrisorie, visti i giri d’affari degli attori coinvolti. In caso di infrazioni sistematiche, inoltre, la Commissione si riserva di applicare quelli che chiama «rimedi strutturali», che possono arrivare fino all’obbligo di cedere una branca del proprio business.
Il combinato disposto di misure stringenti e contromisure adeguate dovrebbe scoraggiare le compagnie digitali dall’abusare della loro posizione. come ha spiegato il commissario Breton, «molte di loro ci hanno anticipato e si stanno già adeguando». In attesa delle correzioni di Consiglio e Parlamento, sembra già un buon punto di partenza per rendere più ordinato il caos digitale.