L’archiviazione del procedimento a carico di un giornalista pubblicista, iscritto all’Ordine dei giornalisti del Lazio, sarebbe passata sotto silenzio se a parlarne non fosse stato, qualche settimana fa, Ivan Scalfarotto. Prendendo spunto dal dibattito nuovamente sollevato sull’Ordine dei Giornalisti a seguito della polemica tra Laura Boldrini e Mattia Feltri (direttore di Huffington Post), il deputato di Italia Viva e sottosegretario agli Esteri ha infatti pubblicato, il primo dicembre, un post su Facebook per raccontare «senza troppi commenti quanto è accaduto a me» e lasciare «a chi legge di farsi un’idea del ruolo e dell’utilità» dell’ente pubblico.
In pratica, il 28 giugno scorso, due giorni prima che il relatore Alessandro Zan (Pd) depositasse in Commissione Giustizia della Camera il testo unificato di legge contro l’omotransfobia e la misoginia, Antonio Angelini, giornalista pubblicista e blogger de Il Giornale, aveva twittato: «La pedofilia secondo Scalfarotto è “un orientamento sessuale” non una porcheria o una malattia. Quindi non potrete più dire che vi fa schifo perché rischierete galera, patente, passaporto e altro».
Non era dunque bastata la fake amplificata da Diego Fusaro, che attribuiva al progetto di legge Zan l’obiettivo legittimatorio della pedofilia sulla base dell’emendamento 1.5 a firma Giovanardi, D’Ascola, Torrisi, Bianconi, Chiavaroli (Nuovo Centro Destra) al disegno di legge in discussione nella precedente legislatura, di cui era relatore Ivan Scalfarotto.
Non era bastata l’immediata precisazione dello stesso Zan e della senatrice Monica Cirinnà, responsabile del Dipartimento Diritti civili del Pd, che in un comunicato avevano fra l’altro osservato: «I messaggi, che circolano soprattutto tra genitori, fanno riferimento, con tanto di foto, a un emendamento presentato nella scorsa legislatura al Senato – a fini provocatori e ostruzionistici – dal senatore Giovanardi. Sappiamo bene che le proposte di legge sono invece in discussione alla Camera dei deputati e che il senatore Giovanardi non è stato rieletto. Sappiamo soprattutto che le proposte di legge in discussione non fanno in alcun modo riferimento alla pedofilia, reato gravissimo, ed è davvero assurdo doverlo precisare ufficialmente».
Senza alcuna considerazione di ciò né previa lettura sia delle cinque proposte di legge, poi confluite nel testo Zan approvato alla Camera il 4 novembre scorso, sia del ddl Scalfarotto risalente alla XVII° legislatura, Angelini non solo perpetuava l’errore ma compiva il passo ulteriore via Twitter. Far passare cioè bellamente il deputato di Italia Viva – con tanto di foto, a corredo del cinguettio, dell’emendamento giovanardiano “impreziosito” della scritta a caratteri rossi: Pedofili – quale sostenitore della grave parafilia.
Scalfarotto, che ha poi sporto anche querela tramite il suo legale Davide Steccanella, se ne era perciò «lamentato con l’Ordine dei Giornalisti del Lazio, che lo scorso 9 novembre ha deciso di archiviare la pratica «perché il fatto non sussiste». Non ci sarebbero stati, infatti, a loro dire, da parte di Angelini «dolo e malizia nella pubblicazione del post».
Secondo l’Ordine, in sostanza, per dare del sostenitore della pedofila a qualcuno non è per nulla necessario fare prima un approfondimento, un secondo pensiero, nulla che possa evitare la negligenza, l’imprudenza o l’imperizia, che danno luogo agli illeciti colposi. Se lo fa per leggerezza, insomma, il giornalista secondo l’Ordine del Lazio può dare del pedofilo a qualcuno senza problemi. Così, con un sorriso».
Nel postare lo screenshot della decisione, presa all’unanimità dal Primo Collegio del Consiglio territoriale di disciplina dell’Odg del Lazio, il sottosegretario agli Esteri rilevava, infine, come «cosa più interessante» l’annotazione e la messa «per iscritto che Angelini sarebbe “particolarmente sensibile al tema della pedofilia in quanto padre di una bambina”, il che evidentemente – secondo loro – sarebbe una ragione per dare del filo-pedofilo a me senza che questo costituisca una violazione della deontologia professionale. Curioso, cos’altro devo dire».
Da dire ci sarebbe tanto. A partire da quell’«errore collettivo» generato da una «fake news che ha tratto in inganno molti, non solo giornalisti (sic!)» e, da quell’«errare humanum est», la cui applicazione a discolpa del pubblicista avrà fatto rivoltare nelle superne sfere Cicerone, Girolamo e Agostino. Ha poi dell’incredibile l’affermazione di Angelini rilasciata in audizione e tenuta in considerazione dal Consiglio di disciplina: «Sono un giornalista pubblicista e non ho quindi una redazione alle spalle da cui apprendere le notizie, di mestiere faccio l’imprenditore».
È vero che lo stesso dichiara di aver cancellato il tweet ben prima che Scalfarotto avesse annunciato di sporgere querela e di aver fatto prontamente avere un messaggio di scusa al parlamentare. Ma non si può non rilevare come nelle sue affermazioni si continuino sottilmente a confondere omosessualità e pedofilia sulla base di argomentazioni fra l’altro infondate del tipo «la stessa Cei è intervenuta sul disegno di legge in modo molto critico» (ma le critiche della Conferenza episcopale italiana al pdl Zan non sono mai state su un preteso sdoganamento della pedofilia, ci mancherebbe pure) o non pertinenti al testo di legge: «Non si può negare che esista un movimento di pensiero che tende a sminuire la gravità della pedofilia».
Si comprende dunque perché Scalfarotto nel raccontare l’accaduto abbia sollevato l’interrogativo di fondo su ruolo e utilità dell’Ordine dei Giornalisti. Quella del relativo mantenimento o abolizione è, come si sa, una polemica-battaglia che si trascina da 47 anni.
L’ente pubblico, istituito con la legge numero 69 del 3 febbraio 1963, la cosiddetta legge Gonella, per vigilare sull’operato di iscritti e garantire loro al contempo tutela, iniziò a essere oggetto di specifici progetti legislativi che ne chiedevano la soppressione già a sette anni dall’entrata in vigore del Regolamento d’esecuzione (12 marzo 1965).
I primi ad agire in tal senso furono i deputati repubblicani Francesco Compagna, Pasquale Bandiera e Adolfo Battaglia, tutti e tre giornalisti, che il 13 luglio 1972 presentarono una specifica proposta di legge. Denunciando nella relazione introduttiva il carattere corporativo e limitativo dell’Ordine con esplicito richiamo ai rilievi di Luigi Einaudi ne Lo scrittoio del presidente: 1948-1955, i proponenti ne evidenziavano il «contrasto oltre che con lo spirito della Costituzione repubblicana anche con le norme che tutelano la libera circolazione della mano d’opera nei paesi del mercato comune europeo».
Fu il primo dei tanti tentativi a cadere nel vuoto dentro e fuori dal Palazzo. Il richiamo alla fortunata metafora pasoliniana non è stato fatto a caso: rievocativa dello storico slogan di Radio Radicale, essa rimanda a chi condusse dagli anni ’70 agli anni ’90 una strenua battaglia, peraltro ondivaga e non sempre lineare, per la soppressione. Ma va pur sempre precisato che quella di Pannella va inserita nell’ottica più ampia di un’opposizione agli ordini professionali in genere.
Fra le tante proposte soppressive bisogna anche ricordare quella dell’attuale presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, presentata nel 1997 insieme con altri deputati dell’Ulivo: sostituire, cioè, l’Ordine con un Consiglio superiore dell’informazione a tutela dell’autonomia professionale e del rispetto della deontologia. Ma sotto gli attacchi di contrapposti schieramenti politici, non ultimi quelli populistici dei pentastellati che hanno fra l’altro rispolverato la solita panzana della creazione fascista – dimentichi che un primo elenco di giornalisti risale alla fine dell’800 e che la legge 69/1963 ha sì reintrodotto l’Albo professionale del 1925 ma con finalità contrapposte a quelle mussoliniane di controllo censorio della stampa – l’Odg ha sempre resistito e visto anzi una crescita degli iscritti, che hanno superato quest’anno i 110.000.
Al di là dell’annoso dilemma Ordine sì/Ordine no, visto che esso attualmente esiste ed è in ottima salute si desidererebbe pertanto che fossero scrupolosamente perseguite le finalità per cui fu istituito nel 1963 da quel Guido Gonella, i cui Acta diurna su L’Osservatore Romano, unica voce libera nel panorama dell’informazione italiana sotto il fascismo, gli erano costati nel 1939 l’incarcerazione per ordine del regime.
Finalità, che nella decisione del Consiglio di disciplina laziale non sembrano essere state attuate.