Agire allo stesso modo, nelle stesse circostanze, condizioni e contesto, aspettandosi però un esito diverso: ecco quale potrebbe essere una buona definizione di idiozia. Sfortunatamente, è esattamente quello che stiamo facendo tutti da settimane, nell’assurdo dibattito sul numero di posti a tavola da aggiungere per Natale o su quando e come riaprire le scuole, le vie dello shopping e le piste da sci, con governo e Regioni che annunciano il progressivo allentamento delle misure (a quanto pare, il miracolo di Natale quest’anno consisterà nel fatto che l’Italia diverrà tutta zona gialla giusto in tempo per le feste), ma al tempo stesso ammoniscono i cittadini a comportarsi in modo responsabile e a non ripetere gli errori dell’estate, per evitare il rischio di una terza ondata. Che è esattamente quello che abbiamo detto e fatto quest’estate, prima di restare sbalorditi dinanzi all’arrivo della seconda.
Sembra proprio la barzelletta del carabiniere che al cinema accetta di scommettere con un collega su quale cavallo, nel film che stanno vedendo, vincerà la corsa, e quando alla fine l’altro gli confessa di aver barato, perché lo aveva già visto, risponde: «Anch’io l’avevo già visto, ma oggi il mio cavallo mi sembrava più in forma».
Il film è sempre lo stesso, eppure continuiamo a discutere di come potrebbe andare a finire. L’unica sostanziale differenza, tra il film di questa estate e quello di oggi, è che questa estate, al termine del micidiale lockdown nazionale di marzo e aprile, i contagi erano quasi azzerati. Oggi sono decine di migliaia.
Mi rifiuto, per rispetto verso l’intelligenza del lettore, di analizzare nel dettaglio argomenti e controargomenti del «metodo scientifico» (da pronunciarsi rigorosamente balbettando leggermente sulla esse, al modo di Vittorio Gassman nei “Soliti ignoti”) con cui il governo da mesi ci assicura di monitorare costantemente la situazione, così da prendere di volta in volta misure «adeguate e proporzionate».
Basta dire che sotto gli occhi del vigile monitoraggio governativo siamo da settimane il Paese con più morti di covid in Europa e ai primissimi posti nel mondo in questa non onorevole classifica. In termini assoluti, da giorni siamo secondi solo agli Stati Uniti, che hanno oltre il quintuplo dei nostri abitanti.
Ieri abbiamo sfiorato ancora una volta gli ottocento morti in 24 ore, per la precisione 785. Commento del comitato tecnico-scientifico: «La situazione migliora». C’è solo un po’ di nebbia che annuncia il sole, andiamo avanti tranquillamente.
Chi al governo avrebbe dovuto organizzare una strategia di contenimento e chi nel mondo dell’informazione e tra gli scienziati avrebbe dovuto vigilare e lanciare l’allarme per tempo ha passato i mesi da marzo a settembre – con poche eccezioni – a lodare l’efficacia di un inesistente «modello italiano» che tutti gli altri paesi del mondo ci avrebbero invidiato (quelli che hanno avuto la metà dei nostri morti, con un quarto dei nostri sacrifici economici e sociali), i mesi da ottobre a novembre a ripetere che comunque anche nel resto del mondo nessuno ha fatto meglio di noi (sempre quelli di cui alla parentesi precedente) e si appresta a passare tutto dicembre ammonendo le Regioni, i sindaci e i singoli cittadini a non guastare i frutti di una così bella strategia.
Nessuno nega ovviamente che il contenimento dell’epidemia sia una sfida eccezionalmente difficile, e che nessuno nel mondo abbia trovato la soluzione definitiva (o quasi nessuno: la Corea del Sud ha avuto da febbraio a oggi 526 morti, meno di quanti noi ne abbiamo avuti nelle ultime 24 ore), come ministri e sostenitori del governo ripetono ogni giorno da quotidiani e talk show, con il solito gioco delle tre carte. Perché il punto non è se qualcuno nel mondo sia riuscito a fare «miracoli» che noi non abbiamo saputo fare. Il punto è che pochi al mondo hanno fatto peggio.
Questa è la ragione per cui occorrerebbe almeno provare a cambiare strategia, per uscire da una simile spirale, che produce al tempo stesso maggiori perdite umane e maggiori perdite economiche.
Nessuno nega che organizzare un sistema di sorveglianza e prevenzione capace di tenere basso il numero dei contagi – una volta abbattuta la curva con i vecchi metodi – sia sfida complicatissima, che comporta mille difficoltà sotto il profilo dell’organizzazione, dei costi, dell’utilizzo dei dati e del rispetto della privacy.
Quello che è imperdonabile è il fatto che il governo finora non ci abbia nemmeno provato. Conta poco accertare se non lo abbia fatto perché desideroso di credere che in estate il virus fosse ormai clinicamente morto (nonostante imperversasse in ogni altro Paese del mondo) o perché vittima della sua stessa propaganda sul «modello italiano», e dunque sinceramente convinto che a stroncarlo bastasse una gragnuola di conferenze stampa e chiacchiere senza senso.
Non entro poi nell’incresciosa vicenda del piano pandemico aggiornato al 2006, riportata all’attenzione, con ulteriori inquietanti particolari, dall’ultima puntata di Report, che illumina adeguatamente quali siano state in questi mesi le vere preoccupazioni del governo e dei suoi scienziati di fiducia. Fatto sta che non si può continuare a nascondere la polvere sotto il tappeto. Anche perché, per il punto a cui siamo arrivati, non abbiamo abbastanza tappeti.
C’è poco da fare, per risolvere un problema bisogna prima ammetterne l’esistenza. Per cambiare strategia bisogna prima riconoscere che la vecchia ha fallito. Finché presidente del Consiglio, ministri e osservatori si ostineranno a negare l’evidenza dei numeri, le probabilità di ottenere un esito diverso da quello che abbiamo ottenuto fin qui saranno pari a zero, in inverno come in estate, il prossimo autunno come l’autunno scorso.
Anche ieri quasi ottocento morti, anche ieri nessuno ha sbagliato niente, anche ieri «la situazione migliora»: è sempre lo stesso film. E non finirà diversamente neanche questa volta.