Pubblichiamo in anteprima un estratto dell’articolo “Mussolini, il cosiddetto «uomo della Provvidenza»” dello storico Giovanni Sale, che comparirà sabato sul prossimo quaderno della rivista La Civiltà Cattolica (pp. 545-556).
A 75 anni dalla sua tragica morte Benito Mussolini continua, in modo ambiguo, ad «affascinare» molti italiani. Secondo alcuni, è l’«ombra malvagia» del passato che vorremmo dimenticare, ma che in qualche modo ritorna; secondo altri, è semplicemente un modo per ripensare in senso critico e costruttivo la storia recente, anche quella più controversa, quale fu quella del fascismo, o per guarire dalle dolorose ferite e dalle persistenti divisioni del passato. Il che è sempre opportuno e non va sottovalutato, e in ogni caso non va utilizzato strumentalmente per contingenti motivi politici.
Due recenti romanzi storico-biografici scritti da Antonio Scurati – “M. Il figlio del secolo” e “M. L’uomo della provvidenza” – sono diventati veri e propri casi letterari, vendendo in Italia diverse centinaia di migliaia di copie. Il primo ha anche vinto nel 2019 il prestigioso premio Strega. In ogni caso, essi si impongono nel nostro panorama letterario sia per lo stile della scrittura (rigoroso, asciutto, coinvolgente), sia per l’inconsueto soggetto e la trama della narrazione: Mussolini e la sua vicenda non soltanto politica, ma anche personale e umana.
[…] In questo articolo tratteremo della cosiddetta «politica della mano tesa», strumentalmente attuata da Mussolini nei confronti della gerarchia cattolica. Egli subito si rese conto che per governare gli italiani c’era bisogno del sostegno della Chiesa, e in ogni caso di non entrare in conflitto aperto con essa. Cosa che di fatto avvenne, ma non sempre alle condizioni imposte o volute dal Duce del fascismo.
La riforma Gentile sulla scuola
[…] Appena consolidato il nuovo governo, Mussolini diede subito prova di voler prendere sul serio le questioni religiose e di voler instaurare rapporti «amichevoli» con la Santa Sede, dando attuazione, unilateralmente, a tutta una serie di provvedimenti amministrativi riguardanti la materia ecclesiastico-religiosa che si trascinavano da lungo tempo. Alcuni ne prese di propria iniziativa, come ad esempio l’ordine di far appendere negli uffici pubblici e nelle scuole il crocifisso, nonché la restituzione di alcuni beni ecclesiastici e il finanziamento del restauro di chiese importanti. Ma i provvedimenti che maggiormente furono apprezzati e lodati dalla gerarchia ecclesiastica furono quelli che riguardavano la riforma scolastica e la massoneria.
La cosiddetta «riforma Gentile», in materia scolastica, fu certamente uno dei provvedimenti più significativi presi dal nuovo governo. In realtà, essa fu apprezzata più dai cattolici e dai «popolari» – i quali a quel tempo facevano ancora parte della coalizione di governo – che dagli altri gruppi politici. Infatti essa faceva propri alcuni princìpi che erano parte del programma del Ppi in materia scolastica, quali l’introduzione dell’esame di Stato e l’insegnamento religioso obbligatorio nelle scuole primarie.
Nuovo però era lo spirito che animava tale riforma, il quale si muoveva secondo la direttiva data dal ministro della Pubblica istruzione, il filosofo Giovanni Gentile, per il quale l’insegnamento religioso doveva diventare «il principale fondamento dell’educazione pubblica e di tutta la restaurazione dello spirito italiano».
Gentile lavorò per dare all’istruzione pubblica un nuovo fondamento teorico, ispirato alla filosofia storico-idealista: si voleva così superare la vecchia impostazione positivista data alla scuola pubblica dalla legge Casati, ed esaltare i valori della patria e della latinità.
[…] Le parole di incoraggiamento da parte della gerarchia ecclesiastica in difesa della riforma Gentile e degli altri provvedimenti adottati dal governo in materia religiosa di fatto arrivarono e furono anche numerose, ma con alcuni distinguo. In particolare, esse esprimevano un appoggio soltanto «condizionato» al governo Mussolini: fino a quando non fossero cessate definitivamente le violenze fasciste contro l’Azione cattolica o le associazioni che in qualche modo erano legate a essa, la gerarchia non avrebbe sciolto le sue riserve nei confronti del nuovo governo (riserve che da parte di alcuni ambienti del mondo cattolico erano anche di ordine dottrinale e morale).
I maggiori organi di stampa cattolici valutarono positivamente il progetto di riforma. La Civiltà Cattolica scrisse che, sebbene non si conoscessero ancora le modalità particolari con cui si sarebbe attuata la riforma né il criterio con cui si sarebbe proceduto alla scelta degli insegnanti o dei libri di testo da utilizzare nelle scuole – cose, queste, molto importanti per la Santa Sede – «la serietà degli intenti lascia a sperare che il “programma dell’insegnamento religioso venga veramente seguito nel senso delle alte finalità che si propone”».
L’8 febbraio 1923 la rivista dedicò un lungo articolo al progetto di riforma – che il ministro Gentile aveva anticipato in una intervista al giornale romano La Tribuna (5 gennaio 1923) –, commentandolo benevolmente, ma con qualche distinguo e qualche indicazione data all’autorità pubblica: «In quello che ha dichiarato S. E. l’on. Giovanni Gentile, Ministro della Pubblica Istruzione, ad uno scrittore della Tribuna, bisogna bene distinguere due parti. L’una nella quale parla il Ministro, corresponsabile col Capo del Governo, e quindi, come dicesi, ufficialmente manifestò i propositi del Governo; l’altra nella quale il filosofo espone le sue teorie».
L’articolista concordava pienamente con la prima parte dell’intervista, che si fondava su due princìpi: 1) «Al fanciullo italiano dev’essere insegnata la religione cattolica»; 2) «L’insegnamento religioso sarà obbligatorio», ma a patto che per insegnamento religioso si intendesse soltanto quello che la Chiesa riteneva tale. «Non è quindi dottrina cattolica – recitava l’articolo – né insegnamento cattolico, quello che si facesse senza dell’autorità della Chiesa o ne prescindesse come che sia. Da ciò deriva la necessità che il programma, i libri di testo e i maestri in questo insegnamento devono essere approvati da questa autorità».
Invece l’articolista non accettava – e del resto non la poteva accettare – la parte «filosofica» dell’intervista di Gentile, perché in essa si esponevano teorie condannate dalla Chiesa, quali l’idealismo e il soggettivismo. L’articolo terminava elogiando l’attività del governo: «Dobbiamo però riconoscere che in queste dichiarazioni del Ministro, si dà a vedere un animo schietto e leale, non asservito a pregiudizii di setta, ed altresì rivolto verso l’attuazione di quello che non può non raccogliere il plauso sincero della maggioranza degli italiani, cioè dei cattolici, benché assai lontani dalle teorie del filosofo».
Più esplicito nel ringraziare il ministro, e quindi il governo, per la prospettata riforma fu L’Osservatore Romano del 6 gennaio, che scrisse: «I cattolici italiani non possono non rendere questa giustizia al ministro [di aver cioè riconosciuto alla religione la “sua inarrivabile virtù elevatrice”] e gliela rendono con animo grato».
Il provvedimento contro la massoneria
Il provvedimento adottato dal Gran Consiglio del fascismo – che a quel tempo era soltanto organo consultivo del presidente del Consiglio e non organo costituzionale, come poi sarebbe diventato – il 15 febbraio 1923 contro la massoneria rientrava nel progetto fascista di eliminazione di tutti i poteri occulti o settari che potevano in qualche modo minacciare la «rivoluzione fascista e la rinascita nazionale».
A questo proposito va ricordato che Mussolini aveva iniziato la sua lotta personale contro la massoneria già al tempo della sua militanza socialista. Inoltre, egli sapeva bene che questo provvedimento sarebbe risultato ben gradito alla Santa Sede e gli avrebbe meritato la sua riconoscenza, essendo la massoneria, da circa un secolo, il maggiore nemico della Chiesa cattolica, contro la quale essa aveva lottato e continuava a lottare con tutte le sue forze, senza però ottenere risultati apprezzabili.
[…] La Civiltà Cattolica, esprimendo il giudizio della Santa Sede, commentò favorevolmente la decisione presa dal Gran Consiglio, scrivendo: «Abbiamo il diritto di dire che in uno Stato nazionale, quali che possano esserne i pericoli, che non abbiamo nascosto [come per esempio una congiura ebraico-massonica internazionale organizzata contro il Governo italiano], la massoneria non ha luogo, e l’ebraismo non deve esercitare maggiore influenza di quello che comporti la sua proporzione numerica. Ecco perché, a nostro parere, non è il solo fascismo che deve espellere la massoneria, ma lo Stato, se lo Stato è nazionale». Parole che non passarono inascoltate da chi di dovere.
[…] Dopo la decisione presa dal Gran Consiglio il 15 febbraio, le devastazioni contro le logge massoniche si andarono intensificando in tutta Italia, nonostante le frequenti rimostranze presentate dal Gran Maestro al Capo del governo. «Come è noto – scriveva l’informatore – da parte dei fascisti in alcuni comuni d’Italia sono state devastate sedi dei circoli cattolici e sedi di logge della Massoneria. Il Torrigiani nota e rimprovera a S. E. Mussolini di aver fatte le sue scuse pubblicamente alle Autorità Ecclesiastiche, alle quali avrebbe anche fatto chiedere l’ammontare dei danni arrecati ai circoli per effettuarne il rimborso. Egli quindi invocherà parità di trattamento e pare che qualche affidamento in tale senso gli sia stato dato».
In realtà, lo Stato, nonostante qualche assicurazione data alla Santa Sede in questo senso da Mussolini, non risarcì mai i danni provocati dalle devastazioni fasciste contro i circoli cattolici, sulla base del principio elaborato dalla giurisprudenza amministrativa che lo Stato non può essere chiamato a rispondere civilmente dei danni provocati dai privati, quali in effetti erano i membri delle squadre fasciste.
«Il Torrigiani – continua l’informatore vaticano in una nota dell’8 agosto 1923 – nell’atteggiamento del Governo, crede di intravedere, e forse non si sbaglia, progetti di provvedimenti contro le logge massoniche delle quali egli ritiene si stia preparando lo scioglimento. Se ciò dovesse verificarsi, egli ha detto che si avrebbe la dimostrazione che il Governo è asservito al Vaticano, e in questo caso ha minacciato una forte reazione da parte della massoneria universale. Da persona bene informata mi è stato detto che tale è proprio il pensiero del presidente del Consiglio. Ma chi collabora col presidente vede nei temuti provvedimenti un pericolo, e si ritiene che si cercherà di dissuaderlo da un indirizzo di aperta ostilità verso la massoneria».
Questa politica di cordiale avvicinamento del governo fascista alla Chiesa troverà pronta accoglienza in quella parte della gerarchia ecclesiastica – a quanto pare non poco numerosa – che vedeva nel fascismo (e nel suo capo), nonostante alcune sue intemperanze o esagerazioni, l’unica forza politica capace di riportare l’ordine nel Paese, e soprattutto di saper tenere a bada le forze eversive – socialisti e comunisti – e i nemici della Chiesa cattolica, cioè la massoneria.
Il Papa però non si lasciò trascinare da tanta liberalità e invitò i suoi collaboratori alla vigilanza, e privatamente, in diverse occasioni rimproverò i prelati – come ad esempio mons. Pietro Paino, vescovo di Messina, e i cardinali Basilio Pompilj, Vincenzo Vannutelli e Alfonso Maria Mistrangelo – che si erano espressi in modo eccessivamente elogiativo nei confronti di Mussolini o si erano prestati a sostenere iniziative pubbliche prese dal governo fascista. Insomma, il suggerimento prudenziale di Pio XI, nonostante la «mano tesa» di Mussolini nei confronti della Chiesa cattolica, continuò a essere: «occhi aperti!».