A quel tempo io ero una ragazza. Fischiare non sapevo fischiare, ma giocare a ramino sì.
E la prima cosa che mi dissero, al mio primo contratto Rai, fu: i vecchi poi muoiono.
Intendevano: dobbiamo puntare al pubblico dei giovani. Era una causa non persissima quanto ora, ma comunque piuttosto persa, lo capivo persino io che avevo così pochi anni.
Vent’anni sembran pochi, poi ti volti a guardarli, e vedi che la Rai sta sempre lì: a inseguire giovani rispetto ai quali noi eravamo topi di biblioteca.
Giovani con la memoria storica d’un moscerino.
Giovani per i quali non è successo niente che non sia successo quando loro già eran coscienti.
E quindi io la capisco, la Rai, che prende un classico che se mandato in prima serata farebbe il 3 per cento, e lo rifà, più brutto ma a colori, più insensato ma arredato meglio, più snaturato nei toni ma con la grammatica più a modino.
Hanno fatto cinque milioni e mezzo di spettatori, che vent’anni fa sarebbero stati un disastro, ma oggi come oggi, con quelli che giocano a ramino dispersi per le piattaforme, sono tantissimi (fischiare le donne non si usa più, ora si chiama catcalling ed è una cosa per cui sei subito oppressore patriarcale).
Quindi non sarò certo io a parlar male di “Natale in casa Cupiello”, sebbene sia stato come essere travolta da un tir di madeleine e poi scoprirle andate a male.
Molto prima dello streaming, c’era la pirateria legalizzata. Almeno credo fosse pirateria, mi chiedo da decenni come funzionasse il meccanismo.
Davanti a casa mia, a Bologna, c’era un negozio che vendeva dischi ed elettrodomestici e strumenti musicali. Adesso è finito in periferia, ma all’epoca la parte degli elettrodomestici era proprio di fronte a casa, e quella dei dischi poco più in là.
Fu quindi attraversando la strada che mio padre comprò uno dei primi videoregistratori che si vedessero in città. Un attrezzo così all’avanguardia che ancora non era cominciato il commercio di videocassette. Quindi il negoziante te le procurava. Mai saputo come, riversandole dalle pizze cinematografiche o cosa. I filmati erano di buona qualità, non roba registrata a casa con loghi di tv locali, e le custodie erano di cartoncino bianco col titolo scritto a mano.
I primi acquisti erano divisi tra quel che piaceva a papà – My Fair Lady: se mio padre fosse stato consapevole di non essere neanche lontanamente eterosessuale, la sua vita sarebbe stata più felice? – e quel che piaceva a mamma: Eduardo.
Quindi lei – terrona, una contadina – metteva su le commedie di De Filippo (la pirateria del negozio di fronte aveva inventato le teche Rai ben prima che la Rai si svegliasse), e suo marito – brianzolo, guardiano di mucche – passava davanti al televisore borbottando: «Io non capisco una parola».
Chissà se il napoletano che tale non è di Castellitto è il modo in cui la Rai viene incontro al pubblico che non avrebbe capito niente del napoletano ciancicato di Eduardo, o se siamo sempre lì: a Favino considerato un miracolo perché, in generale, gli attori italiani s’affaticano a fare un accento che non sia il loro.
Ma soprattutto: che fine ha fatto l’indolenza? “Natale in casa Cupiello” è una storia d’indolenza, mica quell’isteria che c’era in onda l’altra sera.
David O. Selznick, il produttore di “Via col vento”, ai mille sceneggiatori che assumeva e licenziava (oggi sarebbe mobbing) scriveva lettere per ricordar loro che stavano adattando un libro che tutti gli americani avevano letto, un testo che tutti conoscevano, e quindi intoccabile. Si poteva togliere roba (tolsero due figli a Rossella, per dire, oltre all’unico personaggio maschile non da coppini che ci fosse nel romanzo); ma cambiare no, cambiare mai; aggiungere no, aggiungere mai.
Edoardo De Angelis, regista e cosceneggiatore di questo rifacimento defilippiano (aggettivo che oggi evoca Maria e non Eduardo: che lesa maestà, mamma mia), non ha, povero lui, avuto nessun Selznick a fornirgli manuali di istruzioni, e quindi le cinque lire del cui furto si discuteva per mezza pièce sono diventate cinquecento (è quindi ambientato molti anni più tardi? E quando? Nessuno ce lo spiega).
Non ci sono più i Selznick d’una volta, e quindi De Angelis a un certo punto aggiunge un brandello di dialogo in cui Tommasino (il figlio, quello di «Nun me piace ’o presep’»: ve lo preciso casomai sapeste tutto delle ultime stronzate di supereroi ma non aveste le basi dei classici) dice al padre che sta cercando lavoro, ha mandato le foto a Cinecittà, ed è allora che capisci a cosa somiglia tutta quella smaniosità, tutto quel fuori tono, tutto quel che non somiglia a Eduardo: non è un rifacimento di De Filippo, è un rifacimento di Muccino; è “Ricordati di me”, e Tommasino è Nicoletta Romanoff che vuol fare la Velina.
Va detto che piccoli cambiamenti al testo li fece nei decenni Eduardo stesso, eliminando per esempio la scena in cui il dottore dice che Luca Cupiello è morto perché la sua infanzia era durata fin troppo, e ad affrontare l’età adulta non ce la faceva; è quindi possibile che a un certo punto la battuta su Cinecittà l’abbia aggiunta lui, e io l’abbia rimossa e non avessi per questo mai rilevato prima il potenziale vallettistico di Tommasino.
Se Luca era infantile, Tommasino, visto oggi, è prototipo di tutto il piscialettismo contemporaneo, quello che vent’anni sembran pochi, ma pure trenta, ma pure quaranta.
Epperò è rivoluzionario per il Natale 2020. Quando dire che il presepe non ti piace è inaccettabile: il Natale a noi è sempre piaciutissimo e guai a sostenere il contrario, perdinci; il Natale è la libertà civile che ci hanno sottratto, perdindirindina. È stato Tommasino, ha cominciato a demolirlo prima dei governi e delle pandemie e delle pubblicità: c’è chi uccide per amore, lui uccideva per essere il migliore.