Inventare nuove storie è uno spreco di parole. Così almeno la pensava il padre del poeta rumeno (ma che scrive in tedesco) Paul Celan. Lo stesso diceva quello di Anne Carson, poetessa canadese, più volte tra le candidate al Nobel per la letteratura e autrice di “Economia dell’imperduto”, edito da Utopia editore e tradotto da Patrizio Ceccagnoli, mentre la osservava «riempire pagine di parole in caratteri piccoli piccoli».
I due genitori, con ogni probabilità, non badavano molto a quello che dicevano. Ma sia lui che lei ne traggono spunto per interrogare il mondo: «Cosa, esattamente, va perduto, quando le nostre parole sono sprecate? E dove si trova l’umano deposito dove tali beni si accumulano?».
Non è un gioco di parole poetico. Anne Carson fa sul serio e il pretesto dell’aneddoto personale, condiviso con il celebre poeta, serve a cominciare un’analisi della mentalità economica applicata alla poesia. Il dare e l’avere, il tenere e il vendere. I due sistemi di pensiero possono convivere? E come? Esiste un’economia della poesia (che non sia il bilancio dei compensi di una casa editrice)? E insomma, che cosa è quell’imperduto (espressione di ardua traduzione coniata da Celan, “unverlost”) che viene mantenuto dopo aver pagato il conto di tutta una vita?
La risposta va cercata molto in là, per la precisione nel confronto tra il poeta greco Simonide di Ceo e la figura di Paul Celan. Non ci si spaventi, non è un paragone peregrino.
Simonide ha il raro record di essere il primo poeta della storia a farsi pagare per le sue poesie (e non a caso la tradizione ce lo consegna come avaro, anzi: «spilorcio»). Un primato che Carson gli riconosce senza problemi perché «qualcuno deve pur aver cominciato», e lui del resto visse nel VI secolo a.C., cioè sulla cuspide di due sistemi economici differenti: quello tradizionale, basato su un’economia del dono e della riconoscenza, e quello innovativo, fondato sul denaro, appena arrivato dal vicino oriente e destinato a cambiare tutto.
Il poeta, scivolando sullo spartiacque tra due mondi, vive e ragiona usando le categorie di entrambi i sistemi. Continua come sempre a fornire la sua opera al mondo aristocratico, ma non lo fa più dietro compenso di vitto e alloggio, bensì a pagamento. È un professionista, ragiona come un commerciante: alla società del legame basato sul dono sovrappone quella mercantile fondata sullo scambio di denaro.
Forse a prima vista non sembra ma il passaggio è brusco. Fa sorgere malignità nei suoi confronti (le accuse di avarizia, appunto), lo spinge all’isolamento sociale e soprattutto solleva interrogativi cruciali: come si fa a definire il valore monetario di una poesia? Quanto costa l’arte? Domande destinate a non essere risolte nemmeno a distanza di 25 secoli.
L’economia poetica di Celan è di un genere diverso. Il letterato rumeno, ebreo, di madre tedesca e residenza parigina (con moglie cristiana) concentra la sua riflessione sull’uso della lingua, che cerca di recuperare dal trauma del nazismo attraverso un lavoro di selezione e depurazione delle parole.
Per Anne Carson è un processo, piuttosto insolito, di traduzione della propria lingua nella propria lingua. Un atteggiamento che somiglia alla definizione che dà Karl Marx del denaro: « “Le idee che devono essere tradotte da una lingua madre in una lingua straniera per poter circolare, così che le si possa scambiare, offrono una migliore analogia». Il denaro e la lingua tradotta hanno in comune per lui «il carattere alieno», l’estraneità.
La stessa che Celan sentiva nei confronti del tedesco, alienazione verso ciò che è familiare, più o meno la condizione di Simonide nei confronti di un mondo che stava cambiando.
L’intreccio e il confronto tra le due figure, e cioè le due economie poetiche, costituisce il senso del saggio, che in modo sinuoso pone questioni, ricostruisce mondi e analizza testi e storia. Sullo sfondo rimane la domanda: cosa davvero viene perso, nel linguaggio?
La risposta che darà Carson è «nulla», ma il nulla è già quantificazione di qualcosa. È già un limite, che definisce realtà, stabilisce confini e divide mondi ed epoche.
A conti fatti forse non è un caso che a pubblicare in Italia un saggio come “Economia dell’imperduto”, a distanza di 21 anni dalla prima edizione in lingua originale, sia proprio una casa editrice come Utopia.
In un certo senso ne condivide i tratti fondanti: come Simonide di Ceo appartiene a due epoche (è stata fondata durante il primo lockdown di marzo e i primi libri sono usciti a settembre) e come Paul Celan fa della ricerca di qualità, della purezza della letteratura (il suo motto è «oltre la polvere») la propria missione.
Utopia è il frutto di otto giovani colti ed entusiasti, che come i due poeti citati nel saggio condividono l’essere estranei (uno dei comandamenti è «andare nel mondo senza essere del mondo»), ma come dicono qui si prefiggono con i loro libri «una rivoluzione delle coscienze».
Arriverà? Non è da escludere. Per adesso i libri proposti sono sfide intelligenti al mercato e al tempo, confezionati con grafiche splendide (le geometrie di “Economia dell’imperduto” sono opera di Giovanni Cavalleri) e che fanno delle idee la loro ricchezza. Piccoli capolavori che meritano di restare: di far parte cioè di quell’imperduto che dà senso alla nostra esistenza.