Esiste «un’Europa ufficiale, un’Europa a uso dei francesi immutabile da molto tempo, da talmente tanto tempo che non corrisponde più alla realtà». E poi ne esiste un’altra, quella «non da cartolina» che invece percorre il celebre scrittore di origine belga Georges Simenon in treno e in nave, spingendosi in Turchia, poi a Odessa e nei confini dell’est.
I suoi reportage sono ora raccolti e pubblicati da Adelphi in “Europa 33” (ideale seconda puntata dopo “Il mediterraneo in barca”). “33” appunto come l’anno del secolo, il 1933, cioè 15 anni dopo la fine della Grande Guerra, solo quattro dalla Crisi del 1929 (che si riverberava anche lì) e nel mezzo dell’ascesa dei nazionalismi. Ma anche “33” come la classica parola da recitare al dottore: «Dal suo viso traspare tutta la preoccupazione».
Perché il Continente è Vecchio, ma soprattutto è malato, «sonnecchia sotto la neve e, come chi dorme male, è scossa da bruschi e terrificanti sussulti».
Cosa succede? Il viaggio di Simenon è una raccolta di cartoline «illustrate che non sono mai esatte» ma riescono a essere più veritiere. Il girotondo degli alleati della Francia presenta molte sorprese: il Belgio non è «il fratellino» che racconta la retorica dei politici, ma un Paese in cui la domenica si agitano cortei di operai, minatori e contadini «che radunano cento o duecentomila uomini».
La Lituania, allora privata della capitale Vilnius (sotto controllo polacco) è preda della paranoia da «piccolo Paese», cioè quelli che «sono stati grandi e se ne ricordano». Formula all’apparenza semplice ma azzeccata: tutti i patriottismi si nutrono di risentimento e memoria di grandezza.
Vale anche (e soprattutto) per la Polonia, da poco riunita ma bisognosa di tutto. Vale per la Romania che punta a ricreare a Bucarest una nuova Parigi, e in certi tratti la supera per divertimenti e raffinatezze. Vale per l’Ungheria, per la Cecoslovacchia, per l’Italia in cui «il mendicante adesso indossa la divisa».
In questo quadro di progressi mancati e fame dominante («Mi dicono che sono crudele quando parlo della Polonia e della Romania») cova il tarlo. E lui lo conosce bene. «Ho incontrato Hitler una decina di volte», mentre ha visto Mussolini assistere a una lunghissima parata. Il nazionalismo a base razziale, che non impensieriva Lev Trotzky (lo incontra a Istanbul) comincia a farsi strada.
Soprattutto, raccoglie quel mondo tedesco andato allo sbando, dopo lo stupore, la sconfitta e la svalutazione in cui «si balla dappertutto, c’è un’atmosfera frenetica. Ovunque echeggiano risate febbrili». La Germania è una nazione preda dell’isteria, in cui «o si fa l’amore o ci si suicida». Si racconta di giovani «tra i sedici e i diciassette anni che organizzano “ammucchiate”» in cui «l’essenziale è non avere tempo di pensare» e tutti «fanno sport con una foga disperata». Un mondo in cui «servirebbe un Messia».
È ancora un’Europa che sente il dominio culturale francese. Tutti i più istruiti lo parlano, tutti i Paesi mirano a imitare Parigi. In una corsa a ostacoli «all’incontrario», dove la partenza è fissata lungo gli Urali e il traguardo nella Ville Lumière, c’è chi vince (e riesce a emigrare in Francia) e tutti gli altri perdono. Per loro la punizione è la fame e un eterno girare in tondo in cerca di motivazioni per vivere.
Da abitante di Parigi, è francese e franco-centrico, poi, è lo sguardo con cui guarda vicini alleati e futuri nemici. La misura degli altri parte sempre da lì: Bucarest, per esempio, «sembra quasi Parigi. A volte una Parigi più allegra, tipo quella dell’anteguerra. Probabilmente erano così i nostri Grands Boulevards». Mentre a Varsavia «un parigino, un francese, si sente a disagio per l’eccesso di ricchezza» (la tendenza al kitsch che sopravvive anche oggi).
Perfino la distanza tra le isole nel Mar di Marmara non sfugge a questo parametro, visto che «non supera quella che c’è tra le rive della Senna».
Certo, è anche un omaggio al lettore, un modo per andare incontro ai suoi punti di riferimento. Tra i quali il primo, però, resta sempre la fiducia incrollabile nella propria superiorità.