La battaglia continuaPerché la fine di Trump non basta a dichiarare salva la democrazia

Le élite che lo hanno sostenuto sono riuscite a convincere gli elettori a votare contro i loro stessi interessi, polarizzando la campagna contro i temi identitari della sinistra. Pur di perseguire politiche a loro favorevoli hanno messo in pericolo l’impianto liberale degli Stati Uniti e le conseguenze perdureranno

da Pixabay

Nonostante la vittoria di Joe Biden abbia concesso un sospiro di sollievo, la situazione in cui versa la democrazia globale non è promettente. Non ci sono solo i danni lasciati dall’amministrazione Trump, con il conseguente calo di fiducia nei confronti degli Stati Uniti e del loro ruolo.

Anche i numeri parlano chiaro: se si contano i Paesi con più di un milione di abitanti, ha notato Timothy Garton Ash in un saggio sul futuro del liberalismo pubblicato sullo Spectator, le democrazie sono in diminuzione. È la «recessione democratica» di cui parla qui Larry Diamond e che preoccupa (a ragione) anche il giornalista britannico Martin Wolf.

Se si utilizzano categorie economiche, spiega sul Financial Times, ci sono due classiche tipologie di capitalismo: quello liberale e democratico, che caratterizza gli Stati Uniti e i Paesi suoi alleati, e quello «politico», che appartiene alla Cina. Qui già sorgono i primi problemi: il sistema liberale è, senza dubbio, quello migliore. È democratico, appunto, e contiene gli anticorpi per correggere eventuali incidenti di percorso (la dipartita di Trump ne è un esempio). Ma quello cinese risulta attraente: sono sempre di più, almeno in Europa, ad ammirare la sua efficacia. Velocità decisionale e di esecuzione sono tra gli elementi più apprezzati, soprattutto se messi a confronto con le lungaggini del processo democratico. Certo, il problema è che i cinesi, anche in maggioranza, non potrebbero liberarsi di Xi Jinping attraverso un processo pacifico e legale.

Il secondo problema, invece, riguarda una terza categoria di capitalismo (non considerata dalla suddivisione, ormai superata dello studioso di disuguaglianze serbo-americano Branko Milanovic), quella che Wolf definisce «capitalismo autoritario demagogico».

Si compone come un ibrido dei primi due modelli, in cui sono presenti elementi rituali delle democrazie liberali, come le elezioni, che però risultano svuotate nella sostanza. Il potere è accentrato, il governante è al di sopra della legge e non responsabile. Ma – novità – a differenza di sistemi come quello cinese, il potere è concentrato su una persona sola, che lo gestisce servendosi di tirapiedi e complici in cui il criterio di selezione non è né il merito né la competenza, ma la fiducia e la lealtà. Lo si vede in Brasile (con Jair Bolsonaro) e in Turchia (ed è il caso di Recep Tayyip Erdoğan), ma soprattutto in Russia, con l’esempio globale di Vladimir Putin.

Il meccanismo è sempre lo stesso: vincono le elezioni e cominciano, a forza di decisioni autoritarie, a eroderle dall’interno. Non a caso Donald Trump, che ha cercato di installarlo negli Stati Uniti, era in stretto contatto con questi autocrati.

Ma l’analisi di Martin Wolf fa un passo in più: perché l’elezione di Joe Biden, anche se è una buona notizia, non risolve il problema in maniera definitiva. In altre parole, Trump è battuto ma il trumpismo è ancora vivo. O meglio, è ancora vivo ciò che lo ha determinato e che, soprattutto, ha costretto una consistente parte del Partito Repubblicano a dargli corda, perfino nelle contestazioni sulla bontà del risultato elettorale.

Come è possibile che il glorioso GOP si sia abbassato a tanto? È la conseguenza, «logica», della strategia messa in campo da anni dalla cosiddetta «classe dei donatori», cioè i «pluto-populisti» (la nuova destra composta da sostenitori del libero mercato, nazionalisti e conservatori) che, promuovendo tagli fiscali e deregolamentazioni, spingono gli elettori a votare contro i loro stessi interessi, concentrando le campagne elettorali su temi culturali e identitari.

Li aiuta del resto il fatto che a sinistra sia sorta una nuova classe «la sinistra protetto-populista», alleanza di protezionisti, dirigisti statali, liberali sociali e anti-nazionalisti, in cui le campagne focalizzate sull’identità costituiscono un bersaglio privilegiato (e lo si è visto nelle recenti campagne elettorali, oltre che nella Gran Bretagna di Boris Johnson).

In mezzo a questi due fuochi, c’è Joe Biden, che cerca di portare avanti politiche liberali sensate e intelligenti, anche se l’opposizione sarà fortissima e i meccanismi di potere e privilegio che hanno portato alla ribalta Donald Trump sono ancora vivi.

Come andrà? Wolf non fa previsioni: si limita a constatare che nonostante l’evidenza, l’esperienza dei quattro anni passati non è servita di lezione. Le istituzioni hanno retto, tanti hanno resistito e, alla fine, hanno vinto. La democrazia liberale è salva ma la breccia creata è destinata a rimanere.