L’Ue ha trovato un accordo per la creazione dell’European Peace Facility (Epf), uno strumento che finanzierà le missioni di politica estera e sicurezza comune al fine di prevenire i conflitti, preservare la pace e rafforzare la sicurezza e la stabilità a livello internazionale. Grazie a questo fondo off-budget, l’Ue potrà non solo migliorare le proprie capacità di risposta e di gestione dei conflitti, ma anche rafforzare i Paesi partner nel prevenire e affrontare le crisi interne.
L’Epf avrà una dotazione settennale di 5 miliardi di euro, si affiancherà allo Strumento di vicinato, cooperazione allo sviluppo e cooperazione internazionale (Ndici) e andrà a sostituire il Fondo per l’Africa (Apf) e il meccanismo Athena. Ma perché l’Ue si è dotata di questo nuovo strumento e cosa cambia con la sua approvazione?
«L’esperienza dell’Apf ha dimostrato che il finanziamento dell’Ue ad attività collegate ai settori di Sicurezza e Difesa – e non solo sviluppo e cooperazione – è molto importante», spiega a Linkiesta Alessandro Marrone, Responsabile del programma Difesa dello IAI. «Prima dell’Epf queste attività erano finanziate in modo non sufficientemente ampio e regolare ed erano principalmente operazioni di peacekeeping e prevenzione dei conflitti portate aventi dall’Unione Africana o da altre organizzazione regionali. Adesso invece l’Ue può finanziare anche attività condotte dai singoli Stati terzi aiutandoli ad equipaggiarsi con quartieri generali, strumenti di sorveglianza ed altro».
L’Epf quindi si basa sul concetto di train and equipe, cioè addestrare ed equipaggiare. «È un passo importante per l’Ue, che può finalmente portare avanti operazioni che fino a oggi erano limitate da vincoli giuridici e politici relativi all’approccio comunitario alla sicurezza. Adesso invece si sancisce che l’Ue può aiutare le forze armate e di sicurezza dei Paesi partner per stabilizzare la situazione in loco».
L’articolo 41(2) del Trattato dell’Unione europea prevede infatti che nessun budget europeo possa essere utilizzato per operazioni aventi implicazioni militari o di difesa, motivo per cui l’Epf nasce come fondo off-budget finanziato con i contributi annuali degli Stati membri. «L’articolo è stato superato anche politicamente perché la gestione del Fondo è affidata alle istituzioni Ue: è a tutti gli effetti parte degli strumenti europei e non soltanto una misura ad hoc».
L’Epf è stato introdotto anche per superare il meccanismo Athena, utilizzato per finanziare i costi comuni operativi di singole missioni e operazioni militari, come per esempio quelli legati all’allestimento e all’affitto del quartier generale o al trasporto del personale. «Prima il Paese membro più coinvolto era anche quello aveva più oneri a livello finanziario, ma il meccanismo è stato superato grazie all’introduzione dell’Epf. Ciò potrebbe corrispondere ad un maggiore incentivo per gli Stati Ue più attenti alle proprie risorse, ma non mi aspetto un grande cambiamento», spiega Marrone. «Paesi come quelli Baltici, più preoccupati della minaccia della Russia, continueranno a partecipare poco alle missioni in Africa. Con l’Epf, tuttavia, chi si impegna maggiormente avrà meno oneri e soprattutto esiste finalmente un meccanismo stabile che permette una pianificazione è più rapida ed efficace».
A pesare sul nuovo strumento, però, è la riduzione del budget rispetto a quanto inizialmente previsto. «Anche l’Epf, come gli altri fondi per la Difesa, ha subìto dei tagli che ne renderanno più modesti i risultati, però si può comunque parlare di un miglioramento rispetto al passato nella quantità delle risorse e nella loro allocazione».
L’importanza della realpolitik
Lo Strumento europeo per la pace, seppur appena approvato, rientra nel programma di miglioramento della Difesa comunitaria di cui si era già iniziato a parlare nel 2018 con l’allora Alto rappresentate Federica Mogherini. «L’approvazione dell’Epf è stato possibile anche grazie al sostegno francese, italiano e tedesco ed è in linea con la visione della presidente Ursula von der Leyen di una Commissione più geopolitica. Prima il Fondo era vincolato solo all’Africa e anche se la maggior parte delle missioni continueranno a focalizzarsi sul continente africano, aver eliminato il vincolo geografico permetterà all’Ue di intervenire in altri scenari».
Uno dei limiti del progetto, però, continua ad essere la mancanza di una politica estera comune, che dovrebbe essere il punto di partenza dal quale far derivare le operazioni di difesa. «Dato che l’Ue fatica a raggiungere una visione unitaria, si è deciso di mettere in comune mezzi, strumenti e finanziamenti per stabilire delle strategie settoriali o regionali che portino ad una riflessione di politica estera più elevata a partire da un’operazione pragmatica di maggiore cooperazione, come avvenuto anche in altri ambiti».
Il nuovo meccanismo Ue, però, non è esente da critiche. Secondo diverse Ong, il rischio è che le armi e gli equipaggiamenti forniti da Bruxelles possano essere usati da governi autoritari per reprimere il dissenso interno. A questo proposito, spiega Marrone, l’Ue cercherà di concentrarsi sugli aspetti legati a infrastrutture, accademie, fornitura di sistemi di sorveglianza o veicoli piuttosto che sulle armi. Il problema però resta, perché l’intervento Ue rafforza le capacità delle forze armate del Paese partner ed è importante capire come queste ultime sono impiegate dal Governo in questione.
Nonostante la delicatezza del tema, l’Ue non può permettersi di restare a guardare. «Non intervenire significa lasciare campo libero a Cina e Russia, che forniscono armi in cambio di ritorni economici, senza preoccuparsi del rispetto dei diritti. Piuttosto che non giocare questa partita, Bruxelles cerca di parteciparvi trovando un equilibrio tra i principi, i valori e gli interessi europei».
Le missioni Ue, ricorda Marrone, si sviluppano nel lungo periodo nel quadro di un partenariato che prevede interventi di tipo non solo militare, ma anche economico e inerenti agli ambiti di cooperazione e sviluppo. Sul fronte della difesa, Bruxelles cerca quindi di favorire quei Paesi che non sono all’opposto rispetto alla visione europea di pace e sicurezza, incoraggiando anche un cambiamento politico, seppur nel rispetto della sovranità della controparte. «Venti anni fa l’agenda dell’Ue puntava sulla trasformazione della realtà locale, ma adesso c’è una maggiore consapevolezza che l’influenza esterna ha dei limiti e che un certo sviluppo politico e democratico dipende da fattori endogeni».
Inoltre, rispetto al passato, l’Ue si muove in un mondo multipolare in cui esistono modelli alternativi rispetto a quello occidentale, come per esempio quello della Cina, che «promuove la propria alternativa, fornisce armi e fa patti commerciali all’insegna della piena sovranità e del riconoscimento dei rispettivi autoritarismi».