Non solo decessi, dramma sanitario, rivolgimenti economici. Tra le conseguenze disastrose della pandemia da Covid-19 c’è anche il progressivo ottundimento della memoria collettiva. Non meraviglia dunque che sia passato pressoché in sordina un anniversario significativo: vale a dire, i 70 anni dalla morte dell’autore di quel mattone bleu marine su cui, autentica croce e delizia, si sono formate agli studi classici intere generazioni.
Si tratta di Lorenzo Rocci, il cui Vocabolario greco-italiano conobbe, vivente l’autore, cinque edizioni (la prima fu data alle stampe nel 1939, la quinta nel 1946). Nel 2011, tre anni dopo la 41° impressione, la Società Editrice Dante Alighieri, a cui l’illustre grecista sabino aveva affidato sin dagli esordi la pubblicazione del suo dizionario, ne rinnovava, nel pieno rispetto della fisionomia originaria, vesti grafiche e contenuti. Quest’ultimi sono stati ampliati di 61.000 lemmi – rispetto ai quasi 100.000 collezionati, ordinati e tradotti dal Rocci in 27 anni di lavoro – grazie a una équipe di 15 storici, grecisti e lessicologi che hanno profuso il loro impegno per un lustro sotto il coordinamento redazionale di Eleonora Mazzotti.
Si staglia dunque ancor più in una inarrivabile grandezza la figura di Lorenzo Rocci, che da solo, sprovvisto dei contemporanei mezzi informatici e servendosi unicamente di schede dattiloscritte e appunti, riuscì a realizzare un’opera di 2074 pagine, suddivisa in 4148 colonne. Cosa messa giustamente in risalto nel 2006 dal grecista e filologo Fabio Montanari, che nel 1995 ha curato per i tipi torinesi Loescher il “Gl – Vocabolario della lingua greca” con la collaborazione di circa 30 ricercatori. «L’opera di Rocci è stata un modello – così l’illustre accademico pavese a L’Avvenire nel 2006 – da cui siamo partiti per realizzare un manuale più maneggevole e adatto alle esigenze didattiche della scuola di oggi. Ma il debito verso questo infaticabile gesuita rimane intatto».
Queste ultime parole potrebbero suscitare stupore e forse sconcerto in chi ignora che l’inseparabile compagno di tante versioni di greco, spesso affrontate con un tremore mai sbiadibile nei ricordi, è l’opus maius di un sacerdote appartenente alla Compagnia di Gesù. Sconcerto, soprattutto, in chi dei figli di sant’Ignazio ha una concezione debitrice delle valutazioni – entrate insensibilmente nel sentire comune – di un Pascal e di un Gioberti o consentanea al gesuitismo sociale così à la page col pontificato di Bergoglio.
Sì, Lorenzo Rocci, nato a Fara Sabina (Ri) l’11 settembre 1864 da Domenico ed Eustochio Corradini e fratello maggiore di Filippo, esponente di spicco della fotografia pittorialista del ’900, fu gesuita e tutto di un pezzo. Nella Compagnia entrò appena sedicenne, dopo un’esperienza presso il Seminario vescovile di Anagni. Fu accolto nello studentato di Napoli, dove emise i primi voti il 21 ottobre 1882, per poi continuare nell’apprendimento delle discipline letterarie a Roma e Castelgandolfo.
Negli anni 1885-1887 attese agli studi di filosofia presso lo scolasticato romano in via Giulia e la Pontificia Università Gregoriana. Destinato all’insegnamento di greco e latino presso il Seminario di Strada in Casentino (Ar), attese a tale incarico dal 1888 al 1892. Ordinato sacerdote a Cortona il 26 luglio 1892 dal vescovo Giovanni Battista Laparelli Pitti, l’anno seguente si laureò in lettere – e non già nel 1890 come si è ripetutamente scritto – presso l’allora Regia Università di Roma, difendendo la tesi di laurea davanti a una commissione esaminatrice di cui era componente anche Giosuè Carducci.
A prova ultimata lo scudiero dei classici (così il poeta si era autodefinito nella prefazione alle Poesie del 1871), noto per il violento anticlericalismo e l’adesione alle istanze massoniche, non poté esimersi dall’esclamare: «Lei non solo ha fatto bene, ma molto bene». Ma invitando al contempo il neo-laureato, come raccontava il dotto epigrafista e archeologo gesuita Giuseppe Ferrua, ad abbandonare «la tonaca. Lei è degno di avere una cattedra in università». Cosa che ovviamente Lorenzo Rocci non aveva minimamente intenzione di fare.
Sempre a Roma frequentò il corso di teologia presso la Pontificia Università Gregoriana dal 1894 al 1897. Nel 1897-98 compì il terzo anno di probazione ad Angers. Il 15 agosto 1899 emise i tre voti di povertà, castità e obbedienza in qualità di coadiutore spirituale nel Nobile Collegio Mondragone ai Castelli romani, dove era stato assegnato di comunità. Il motivo per cui Rocci fu inizialmente ascritto al grado di coadiutore spirituale e non a quello di professo di quattro voti è da ricercarsi nel fatto che seguì solo parzialmente la severa trafila degli studi teologici prevista. In questi, a differenza degli umanistici, non brillò particolarmente, come soleva rimarcare il teologo gesuita Giandomenico Mucci, scrittore emerito de La Civiltà Cattolica e padre spirituale per un trentennio nella Pontificia Accademia ecclesiastica, scomparso il 23 novembre scorso all’età di 82 anni.
Presso il collegio tuscolano Rocci avrebbe ancora risieduto dal 1903 al 1920 – con la breve parentesi di docenza presso l’Istituto Massimo di Roma nel 1902 – come professore di greco e latino e dal 1939 al 1946 come preside. I 19 anni, che vanno dal ’20 al ’39 con permanenza presso la comunità romana di Palazzo Borromeo in via del Seminario (che fino al 1930 fu la sede della Pontificia Università Gregoriana e del Collegio Romano), lo videro impegnato come confessore della casa e, dal 1926 in poi, della cappella universitaria di Sant’Ivo alla Sapienza.
Incarico, questo, che, sotto la supervisione dell’allora segretario della Congregazione per la Chiesa orientale, Giovanni Amleto Cicognani (poi creato cardinale da Giovanni XXIII nel 1958 e da questi nominato nel 1961 segretario di Stato), avrebbe espletato insieme con Giovanni Battista Montini (il futuro Paolo VI) e Mariano Rampolla del Tindaro, sottosegretario della Congregazione per i Seminari e insigne studioso di sanscrito, già maestro di latino e greco di Salvatore Quasimodo e mentore di Giorgio La Pira. Inoltre dal 1922 era stato investito anche del compito di direttore della Congregazione Mariana dei Nobili presso la Chiesa del Gesù. Ammesso all’Arcadia il 27 marzo 1920 col nome di di Iperide Menalio, fu in seguito anche ascritto all’Accademia dei Virtuosi al Pantheon.
Ma i 19 anni romani furono soprattutto contrassegnati dalla febbrile messa a punto del vocabolario, dalle traduzioni a stampa dei primi sei libri dell’“Odissea” e dell’“Antigone” di Sofocle, dalla pubblicazione de “La Sintassi latina”, del “Trattato di prosodia e nozioni di metrica latina”, del “Trattato di metrica oraziana”, degli scritti di agiografia gesuitica e, soprattutto, delle “Nuove favole latine in versi senari secondo la maniera di Fedro”. Raccolta, quest’ultima, che è giustamente considerata il capolavoro in latino di Rocci.
Ciò, come detto, non impedì nel 1939 l’ennesimo trasferimento al Collegio Mondragone, di cui il citato Giandomenico Mucci aveva dato più volte a chi scrive una drammatica quanto ironica narrazione, basata sulla scorta di confidenze avute dal confratello Ferrua. Di quel trasferimento Rocci non ne avrebbe voluto inizialmente sapere, come manifestato all’allora preposito della Provincia Romana Raffaele Bitetti.
«All’ennesimo rifiuto – così il padre Mucci – ne fu informato il preposito generale della Compagnia, il nobile polacco Włodzimierz Ledóchowski, che si portò personalmente da padre Rocci per intimargli la partenza. Il grecista, confuso, riuscì solo a balbettare: “Ma, Vostra paternità, sto ancora studiando la radice del verbo καίνω”. Al che Ledóchowski, con quell’inflessibilità per cui era noto e temuto, controreplicò prontamente: “La Compagnia adesso vuole da lei frutti e non più radici. Domani stesso partirà per Frascati”».
Il ’39 fu comunque per il gesuita grecista l’anno della prima edizione del suo monumentale vocabolario, che all’apparire soppiantò subito per accuratezza e completezza i precedenti lessici di Tommaso Sanesi, Friedrich Wilhelm Carl Gemoll nella traduzione italiana a cura di Domenico Bassi ed Emidio Martini e, soprattutto, del benedettino cavese, poi arcivescovo di Benevento, Benedetto Bonazzi.
Ne ricevettero una copia, rilegata in pelle bianca, papa Pio XII, re Vittorio Emanuele III, il presidente del Consiglio e duce fondatore dell’Impero Benedetto Mussolini. Il neopontefice – Pacelli era stato eletto il 2 marzo 1939 – inviò a Rocci un lungo messaggio autografo di ringraziamento ed elogi. Non meraviglia dunque che lo stesso preposito generale Ledóchowski lo ammettesse, il 10 marzo 1940, alla professione solenne dei quattro voti «in considerazione dei di lui meriti» secondo il necrologio latino stilato nel 1950 a Mondragone (attentis eius meritis si legge infatti nell’originale).
Fu quello l’anno in cui Rocci, già dal 1946 nuovamente a Roma presso il Collegio Massimo di San Francesco Saverio, morì al Gesù presso la cui comunità aveva trovato sistemazione lo scolasticato dopo l’abbandono di Palazzo Borromeo. Era il 14 agosto, vigilia della solennità dell’Assunzione di Maria, che solo alcuni mesi dopo, il 1° novembre per l’esattezza, Pio XII avrebbe definito dogma di fede.
Delle ultime ore dell’ottantaseienne Lorenzo Rocci resta il ricordo del confratello Franco Rozzi, che, morto nel 2010 anche lui al Gesù, fu preside dell’Istituto Massimo negli anni in cui Mario Draghi vi frequentò ginnasio e liceo: «Il debito della Compagnia di Gesù verso di lui è enorme; grazie ai diritti d’autore del suo vocabolario per più di cinquant’anni l’Ordine ha sostenuto finanziariamente le attività missionarie e gli studenti poveri. Si racconta che prima di morire, dopo l’estrema unzione, espresse un piccolo desiderio: fumarsi l’ultimo sigaro. Il suo desiderio fu esaudito. Ed è spirato con la semplicità e la bonarietà non artefatta che ha contraddistinto tutta la sua intensa vita di sacerdote e di studioso».
A 70 anni dalla morte la figura di questo gigante della cultura italiana merita indubbiamente una biografia critica che, basandosi anche sulle carte d’archivio conservate nel Fondo della Provincia Romana, integri, precisi e completi i benemeriti lavori di Ghizzoni, Mazzotta e Renna. Attenzione particolare dovrebbe essere riservata al Diario spirituale manoscritto, che iniziato nel 1880, anno dell’ingresso in Compagnia, s’interrompe al 1929.
Un tributo doveroso a chi da decenni continua nei suoi scritti a contribuire alla formazione di generazioni di studenti portandole a conoscere i tesori della lingua di Omero, Saffo, Tucidide. Un mezzo anche per non ricordare in futuro il 2020 solo come l’anno del Covid ma come quello della riscoperta di un maestro e odiosamato amico comune: Lorenzo Rocci.