L’ultimo trimestre 2020 ha fatto registrare un +6,5% del Prodotto interno lordo cinese. Nonostante la pandemia, il Pil ha chiuso l’anno con un +2,3%. Perché a differenza di quasi tutti gli altri paesi, le performance economiche cinesi continuano a essere così positive? Qual è il segreto del loro modello? E perché seguitiamo a non capirlo? Proviamo a fare un salto indietro di qualche anno e a farci aiutare da Milton Friedman…
Nell’ottobre 1976 fu annunciato che il premio Nobel per l’economia di quell’anno sarebbe stato assegnato all’economista americano Milton Friedman. Circa un mese prima di tale annuncio, morì Mao Zedong. Quattro anni dopo la morte di Mao, Friedman visitò la Cina per la prima volta. Al suo ritorno, era convinto che la Cina avesse il potenziale per una rapida crescita economica allo stesso modo di quanto accaduto in Giappone e in Germania dopo la seconda guerra mondiale. All’epoca, Friedman era quasi l’unico a fare una valutazione di questo tipo, chiaramente positiva sul futuro economico della Cina.
È importante ricordare che nel 1980 l’88% della popolazione cinese viveva ancora in condizioni di estrema povertà. Solo quattro decenni dopo, il tasso di povertà estrema è sceso a meno dell’1%. Mai nella storia sono state così tante le persone che sono fuggite dalla povertà in un periodo di tempo così breve. Come ciò sia stato possibile è una delle domande più importanti del nostro tempo e il modo in cui rispondiamo a questa domanda dipende in gran parte da un aspetto: il ruolo del mercato e dello Stato.
Nel 1980 la situazione era ancora poco prevedibile. Friedman rimase sorpreso quando durante il suo soggiorno in Cina scoprì che le opere di Friedrich August von Hayek non solo erano state tradotte in cinese, ma erano anche molto popolari. C’erano articoli su Hayek nelle riviste economiche cinesi e Friedman fu felice di scoprire che alcuni economisti cinesi possedevano già l’edizione giapponese del suo libro “Liberi di scegliere”, pubblicato proprio allora. Si rallegrò anche del fatto che era in preparazione una traduzione cinese del suo libro. Da ciò che emerge dalle sue memorie, Friedman era combattuto tra grandi speranze da un lato e scetticismo dall’altro. In un report del 1980, scrisse che le riforme economiche della Cina si stavano muovendo nella giusta direzione, prima di aggiungere: «Ma il test per verificare se saranno realizzate in pieno e quali saranno i loro effetti è rimandato al futuro». All’epoca era convinto che la Cina avrebbe fatto progressi a breve termine, pur mantenendo dubbi sulle prospettive a lungo termine delle riforme.
Friedman visitò la Cina per la seconda volta nel 1988, nello stesso periodo in cui il Cato Institute (un think tank libertario americano) organizzò una conferenza a Shanghai (un evento di per sé notevole). In quella conferenza, Friedman tenne un discorso e non nascose il fatto che la transizione da un’economia pianificata a un’economia di mercato avrebbe comportato dei costi considerevoli. Ma aggiunse: «È da lodare come gli attuali leader della Cina siano impegnati in un serio sforzo per realizzare tale transizione. Il popolo cinese sarebbe il principale, ma non l’unico, beneficiario del successo di questo grande sforzo. Tutti i popoli del mondo ne trarrebbero beneficio». Erano parole profetiche. Dopo tutto, senza la rapida crescita dell’economia cinese, l’economia mondiale non avrebbe mai conosciuto una crescita così positiva.
Tutti sanno che ancora oggi la Cina è il motore della crescita che alimenta l’economia mondiale, ma Friedman individuò il potenziale del paese già nel 1988.
La posizione ottimistica di Friedman fu incoraggiata da una conversazione che ebbe con l’allora segretario generale del Partito comunista, Zhao Ziyang, che descrisse come una persona con «una reale comprensione di ciò che significa “liberare il mercato”». Nella sua autobiografia Friedman scrisse che il suo colloquio di due ore con Zhao Ziyang fu molto positivo: Zhao «aveva mostrato una comprensione sofisticata della situazione economica e di come funzionava un mercato. Cosa altrettanto importante, riconobbe che erano necessari grandi cambiamenti e dimostrò un’apertura al cambiamento».
Quando Friedman visitò Shenzhen, rimase impressionato dal fatto che questa piccola città portuale che nel 1982 aveva appena 6.000 era cresciuta fino a diventare una vivace città con 500.000 abitanti. Shenzhen è stata la prima “zona economica speciale” della Cina, che ha applicato i principi dell’economia di mercato in maniera più rigorosa rispetto ai paesi europei o persino agli Stati Uniti. Quando io stesso ho visitato Shenzhen nel 2018 e ancora nel 2019 per tenere una conferenza nella locale università, sono rimasto impressionato da questa metropoli di 12,5 milioni di abitanti e dal suo incredibile spirito imprenditoriale.
Nel 1993, Friedman visitò la Cina per la terza volta. Ebbe impressioni più scettiche in questa occasione di quanto non lo fossero state nel 1988. Riuscì ad incontrare di nuovo il segretario generale del Partito comunista, Jiang Zemin. Il loro scambio di opinioni fu però unilaterale: Friedman riuscì a parlare solo per dieci minuti, mentre Jiang Zemin occupò il restante spazio della riunione e parlò per un totale di 45 minuti. Friedman arrivò così a dubitare che la Cina avrebbe continuato sulla strada intrapresa con l’introduzione dei diritti di proprietà privata e le misure adottate per applicare i principi del libero mercato.
Oggi in Occidente c’è un enorme malinteso sui fattori che hanno maggiormente contribuito all’enorme successo economico della Cina. Molti credono che la Cina abbia scoperto una “terza via”, un’alternativa tra socialismo e capitalismo. Altri pensano addirittura che l’incredibile successo della Cina sia stato possibile solo perché lo Stato ha mantenuto una così forte influenza sull’economia.
Nel 2018 sono stato a Pechino e ho incontrato Zhang Weiying, un economista cinese debitore degli insegnamenti di Hayek e Friedman. Zhang è contrario all’interpretazione prevalente; parlando come me ha sottolineato ripetutamente che il motivo per cui lo Stato gioca ancora un ruolo così importante nella Cina moderna è uno solo: è passato ancora troppo poco tempo da quando lo Stato controllava quasi il 100% dell’economia del paese. Il successo economico della Cina negli ultimi quattro decenni si basa interamente sul fatto che il ruolo dello Stato è stato gradualmente ridotto.
Durante la nostra conversazione, Zhang Weiying ha ripetutamente evidenziato come «l’ascesa economica della Cina non sia dovuta allo Stato, ma nonostante lo Stato». Milton Friedman sarebbe stato certamente d’accordo.
Oggi, come confermato da un documento del World Economic Forum, il settore privato costituisce la forza trainante della Cina: «Il settore privato cinese […] è ora il principale motore della crescita economica della Cina. La combinazione dei numeri 60/70/80/90 è spesso utilizzata per descrivere il contributo del settore privato all’economia cinese: contribuisce al 60% del PIL cinese, è responsabile del 70% dell’innovazione, dell’80% dell’occupazione urbana e fornisce il 90% dei nuovi posti di lavoro. La ricchezza privata è inoltre responsabile del 70% degli investimenti e del 90% delle esportazioni».
Friedman criticò il fatto che la Cina non avesse introdotto libertà politiche all’altezza delle sue libertà economiche. In Cile aveva visto le riforme del libero mercato contribuire a porre fine alla dittatura militare del paese. Egli sperava che anche in Cina una maggiore libertà economica avrebbe portato a una maggiore libertà politica.
In linea con gli insegnamenti di Friedman, però, il miracolo compiuto dall’economia cinese conferma che una maggiore prosperità per la popolazione può essere raggiunta solo espandendo i diritti di proprietà privata e promuovendo il libero mercato.