Luciano Floridi ha scritto di recente che, come la Grande Guerra segnò l’inizio del XX secolo con 15 anni di ritardo, così anche il XXI secolo inizia davvero solo ora, con l’epidemia di Covid-19. Di tutti i parallelismi proposti fin qui tra conflitti e crisi pandemica quello di Floridi è probabilmente l’unico condivisibile. Perché invece di limitarsi a raffronti sul piano economico e sociale tra guerre mondiali e coronavirus, peraltro ancora tutti da dimostrare, rivela l’analogia della congiuntura storica e politica in cui si trovò il mondo allora e in cui ci troviamo noi adesso.
Il 2021 promette insomma di somigliare al 1918, molto più che al boom degli anni ’50: non l’inizio di una stagione di espansione e ripresa inevitabili, ma il nostro sliding doors generazionale, il momento di scelte dirimenti che determineranno il senso di marcia della politica, della società e dell’economia ben al di là di quanto ora prevedibile.
Se da quell’analogia politica invece ci si sposta ad altri tipi di paragoni, mettere sullo stesso piano guerre mondiali e pandemia di coronavirus diventa un gioco di specchi distorsivo: fa intravedere un’uscita dove c’è in realtà solo il riflesso di una porta. Proviamo a capire perché.
Un pezzo rilevante di dottrina economica in epoche diverse ha indicato due tipi di sconvolgimenti che rappresentano al tempo stesso un’opportunità di rigenerazione, perché pongono necessariamente le basi per la rinascita sociale e la ripresa del ciclo economico successive: le guerre totali e le pandemie. Le argomentazioni sono diverse, ma tutto sommato intuibili.
Sul piano macroeconomico, studiosi da Malthus a Scheidel passando per Grossman e Rathenau hanno provato a mettere in luce diversi effetti (involontariamente) espansivi dei conflitti: non solo l’impulso derivante dalla riconversione di interi settori alle necessità dell’economia di guerra, ma anche la trasformazione del ruolo regolatore dello Stato e l’ingente stimolo alla spesa pubblica e privata legata alla ricostruzione postbellica. Delle diverse ragioni per cui i conflitti finiscono per costituire uno stimolo all’economia, ve n’è una che accomuna tradizionalmente guerre e pandemie nella letteratura economica: la drammatica riduzione della popolazione attiva (circa l’1% della popolazione delle potenze coinvolte perse la vita durante la Grande Guerra e il 2,5% della popolazione globale morì nella pandemia di spagnola immediatamente successiva), che spinge verso il basso l’offerta di lavoro.
Alla fine della crisi (bellica o pandemica), la ripresa del processo di accumulazione, la rapida espansione della domanda di beni e l’incremento della domanda di lavoro devono fare i conti con una carenza di forza lavoro che fa crescere i livelli occupazionali e i salari facendo da volano a una fase di prosperità.
Ovviamente alcune di queste osservazioni andrebbero, per completezza, attentamente bilanciate da altre: ad esempio, l’economia di guerra è in parte finanziata in debito; la fine delle ostilità priva un numero ingente di reduci di una fonte di reddito, aggravando la situazione occupazionale in una prima fase. Generalmente, tuttavia, la ripresa della produzione e degli scambi che fa seguito alle grandi catastrofi si accompagna a un incremento della popolazione occupata rispetto agli anni della crisi, al netto delle variazioni degli altri fondamentali del quadro economico.
Sul piano sociale, l’elemento di connessione tra guerre totali e pandemie è più sottile, ma ugualmente distinguibile: l’esperienza generalizzata del collasso della struttura civile, la improvvisa e prolungata contrazione non solo dell’aspettativa di vita ma anche della qualità della vita piombano inattese sul piano della storia e si impongono come fenomeno collettivo e determinano condizioni sociali nuove che spingono i governi verso politiche redistributive.
Più in generale, si è spesso ritenuto che tanto i grandi conflitti quanto le pandemie comportino un livellamento delle disuguaglianze che è l’effetto in un primo tempo del brusco arresto del ciclo economico e in una seconda fase di politiche pubbliche espansive.
Ma può dirsi lo stesso della pandemia in corso? Vi sono innumerevoli ragioni (per qualche suggerimento: qui, qui e qui) per cui quella della lotta al covid-19 come «guerra totale contro un nemico invisibile» è una metafora pericolosa. Ad esempio: sul piano individuale, l’utilizzo immotivato e inefficace di lessico bellico e toni marziali aggrava il senso di angoscia e il disagio psichico indotti dalla pandemia in una parte della popolazione.
Sul piano collettivo, quello stesso lessico e quegli stessi toni sembrano elemosinare legittimità politica per l’utilizzo di poteri emergenziali quasi sempre non necessari: le restrizioni alle libertà fondamentali fin qui adottate si sono mantenute nei limiti della normativa vigente in materia di diritti umani e non hanno richiesto di attivare alcuna delle clausole derogatorie previste in caso di guerre e catastrofi nel diritto internazionale.
V’è però un’altra ragione che rende il parallelismo tra guerre totali e covid-19 del tutto inadeguato. Nessuna delle due dimensioni di quel parallelismo descritte sopra – il gap di offerta di lavoro e la contrazione generalizzata della qualità della vita – si è verificata nell’attuale crisi pandemica.
Da un lato, gli straordinari progressi della scienza medica hanno permesso per fortuna di ridurre drasticamente la mortalità del virus e di salvare un enorme numero di vite umane, se paragonato al numero di vittime di pandemia di uguali proporzioni nel passato. Dall’altro, il covid-19 più che uno shock sistemico sembra aver prodotto una cristallizzazione delle posizioni relative di vantaggio e svantaggio: la pandemia non ha colpito tutti allo stesso modo, e nemmeno ha fossilizzato lo status quo esistente; piuttosto, la crisi pandemica produce un impatto multidimensionale su economie a forti disuguaglianze e ridotta mobilità sociale, aggravando i divari esistenti in termini di opportunità occupazionali, accesso alle cure, distribuzione della ricchezza e differenze di genere.
Insomma, ammesso che l’equazione tra guerre totali e pandemie sia verificata in teoria, nulla della crisi che stiamo vivendo sembra rispondere a modelli noti. Il che è innanzitutto una buona notizia: nessuno dovrebbe augurarsi una catastrofe per veder realizzate le riforme economiche e le trasformazioni sociali che questa comporta.
Ma smontare il parallelismo tra conflitti e coronavirus serve anche a smentire un’illusione sui caratteri del ciclo storico e politico inaugurato dalla crisi pandemica: la convinzione cioè che la pandemia abbia prodotto le condizioni storiche che rendono inevitabile una svolta in senso progressista delle politiche pubbliche. La certezza che gli effetti espansivi generati dagli enormi investimenti pubblici per risollevare l’economia globale andranno necessariamente a beneficio di tutti.
Il convincimento, in definitiva, che il decisore pubblico non potrà fare a meno di impiegare le risorse messe a disposizione, ad esempio, dal NextGenerationEu, al fine riequilibrare le sorti di un’economia disuguale a vantaggio dei ceti sociali usciti sconfitti dalla globalizzazione. Una simile convinzione è semplicemente infondata, nessuna condizione esterna basterà a garantire una via d’uscita inevitabilmente equa dalla crisi.
Se pure immaginassimo di abitare in un mondo virtuoso capace di impiegare al meglio le risorse che saranno a breve rese disponibili, avremmo comunque davanti due strade percorribili nel nuovo anno. La prima consiste in un uso oculato ed efficiente del NextGenerationEu per rilanciare l’economia e ripristinare l’andamento del ciclo produttivo laddove si era interrotto. Per far ciò, basta sicuramente un comitato di tecnici deputati al riparto dei fondi.
La seconda invece accetta che qualcosa in quel meccanismo si stava inceppando già prima del coronavirus e vuole cogliere l’opportunità nella crisi per trasformare il nostro modello di sviluppo, riorganizzare una macchina statale vecchia e disfunzionale, e garantire condizioni di vita degne a tutti i cittadini a prescindere da una competizione in cui il vincitore porta a casa tutto e i vinti sono lasciati ai margini della vita sociale.
Questa seconda strada è più ambiziosa, ma molto più impervia. Soprattutto, richiede tanto alle istituzioni (a partire dal governo e dai gruppi parlamentari di maggioranza) quanto alla società civile il coraggio necessario ad assumere scelte politiche (cioè non obbligate ma legittimamente discrezionali) su quali settori della società e dell’economia debbano essere sostenuti o rafforzati più di altri.
L’unico impegno politico assunto finora sulle modalità di impiego del NextGenerationEu riguarda lo sviluppo sostenibile ed è il frutto di decenni di battaglie della società civile (e dei giovanissimi dei Fridays For Future negli ultimi due anni) per imporre il tema al dibattito pubblico. L’altro asse strategico del Next Generation EU, ovvero le politiche giovanili, sembra già essere passato in secondo piano: nella penultima bozza di Recovery plan italiano al capitolo “giovani e politiche del lavoro” era destinato poco più dell’1% dei fondi europei, risorse che dovrebbero però essere riviste al rialzo secondo quanto anticipato sulla nuova bozza elaborata dal Ministero dell’Economia. Nel frattempo, 2.000 giovani italiani under-35 riuniti nel progetto Officine Italia ha stilato e presentato al Governo un “Piano giovani 2021” articolato in cinque richieste prioritarie per le future generazioni. Finora sono stati ignorati.
Non possiamo lasciare che la battaglia per rafforzare il controllo politico sulle soluzioni alla crisi e sull’uso del NextGenerationEu rimanga confinata a una interminabile verifica di Governo. C’è bisogno di responsabilità politica diffusa: chi crede che il 2021 rappresenti un’occasione unica e che gli esiti della crisi dipendano solo da come decideremo di governarla deve farsi avanti adesso.