«Lo stadio municipale di Firenze è stata la prima opera di Pier Luigi Nervi a ottenere un riconoscimento internazionale e i dettagli evocativi della sua struttura fiorentina hanno ispirato ingegneri e architetti in tutto il mondo». La lettera inviata da alcune delle più importanti archistar mondiali al Comune di Firenze e al sindaco Dario Nardella ha quanto meno rallentato le operazioni di demolizione dello stadio fiorentino, con il primo cittadino che ha risposto invitando «a un confronto in videoconferenza». Tra questi c’erano Tadao Ando, Norman Foster, Richard Meier Edouardo Souto de Moura e Alvaro Siza.
Un dibattito molto simile si ripete anche 300 chilometri più a Nord, a Milano, per la costruzione del nuovo stadio che dovrebbe sostituire l’attuale Giuseppe Meazza di San Siro. Il Ministero dei Beni culturali ha spiegato che sulla struttura non gravano vincoli storico-monumentali, ma va tutelata la sua importanza per il territorio, che rende ancora più difficile l’abbattimento dell’impianto, al netto dell’emendamento inserito nel Decreto Semplificazione (art. 55-bis del DL n. 76/2020) che sembrava agevolare certe operazioni.
Ma oggi demolire uno stadio come il Franchi o il Meazza sembra sempre meno un’opzione percorribile, in primo luogo per un motivo strettamente culturale, come spiega a Linkiesta il presidente dell’Associazione nazionale ingegneri e architetti italiani (Aniai) Alessandro Castagnaro: «L’idea della demolizione è uno scempio. Questi stadi hanno rappresentato un momento molto alto della ricerca in campo architettonico strutturale e spesso sono stati fatti da architetti di grande rilievo come Nervi. La demolizione in un Paese che deve puntare sui beni culturali è un controsenso: non possiamo cancellare la nostra cultura».
Non è solo il legame con il passato a tenere in piedi gli stadi. E di certo alcuni impianti vecchi «hanno bisogno di interventi strutturali», come ha fatto notare il sindaco di Firenze Nardella.
Ma oggi le tecniche di costruzione permettono di portare avanti progetti di ristrutturazione funzionale che garantiscono gli stessi risultati in termini di efficienza, evitando costi enormi in termini di inquinamento ambientale e rispettando i parametri del panorama urbanistico.
«È vero che oggi non possiamo permetterci di tenere stadi o altri luoghi che siano solo luoghi di contemplazione, quindi banalmente non possono essere usati solo la domenica per qualche ora. I beni culturali devono “servire” a qualcosa, devono rendere economicamente. Però ad esempio uno stadio come il Franchi può essere usato per tante altre attività sportive. Ci sono tante altre opzioni prima della demolizione: una buona struttura come quella di Nervi può essere inglobata in un progetto più ampio che riguarda l’intera area circostante e gli interventi all’interno dell’impianto. Un buon progetto di architettura deve tener conto del preesistente», dice Castagnaro.
C’è un’assonanza evidente con quanto sostenuto dagli architetti che hanno firmato la lettera a Nardella e al Comune di Firenze, quando spiegano che «numerosi progetti di stadi che negli ultimi anni hanno rivitalizzato impianti storici, elaborando strutture moderne pur preservando l’opera originale e migliorando l’esperienza degli spettatori, combinando il nuovo con il preesistente».
Il discorso meramente calcistico fin qui resta sullo sfondo, diventa secondario rispetto a quello culturale, ambientale, urbanistico. Ma può essere uno dei temi sul tavolo per convincersi che demolire non è necessariamente la strada migliore.
E non è solo un discorso italiano. Il valore storico-calcistico di uno stadio dovrebbe essere rispettato in ogni caso, nei limiti del possibile. «Un buon lavoro mi sembra sia stato fatto a Bilbao, dove per il nuovo San Mamés è stato conservato un lato del vecchio stadio, così che la nuova Catedral potesse sorgere esattamente in continuità con il vecchio impianto», dice a Linkiesta il giornalista sportivo Paolo Condò, che ha appena pubblicato “Porte aperte. 30 avventure negli stadi più belli del mondo” (Baldini+Castoldi) in cui racconta le esperienze vissute in alcuni degli impianti sportivi più belli del mondo.
«Oltretutto faccio notare che in Italia ci sono le uniche grandi metropoli europee con due squadre e un solo stadio, cioè Milano e Roma. Madrid, Barcellona, Londra hanno più stadi, ma anche città più piccole come Manchester e Liverpool», spiega Condò. Molto spesso sono le nuove esigenze economiche e politiche dei club a spingere verso l’abbattimento delle loro vecchie case, come raccontano le demolizioni del Vicente Calderon di Madrid, del De Meer di Amsterdam, dell’Ali Sami Yen di Istanbul o Highbury a Londra.
«Oggi non c’è più nemmeno lo stadio Sarriá di Barcellona dove giocava l’Espanyol – dice Condò – che è lo stadio in cui l’Italia sconfisse Argentina e Brasile ai Mondiali di Spagna del 1982. Quando ci entrai la prima volta, alla fine degli anni ’80 per un Espanyol-Milan di Coppa Uefa, provai una certa emozione: se vogliamo essere un po’ esoterici i fantasmi delle vecchie partite continuano ad abitare negli stadi, così conservare questi impianti diventa anche una forma di rispetto per il passato».