In una scena epica di Fitzcarraldo la barca viene issata sulla montagna e rimessa, dall’altro lato, sul fiume. Per farlo, il film mostra quanto siano necessari un sogno, un argano per tirarla su e braccia per accompagnarla. Il digitale, la sua infrastruttura, ma anche per le competenze per servirsene, si è dimostrato, fin dall’inizio dell’emergenza sanitaria, non solo lo strumento di lavoro con cui molti hanno potuto continuare a operare in smartworking, ma anche il tessuto connettivo che ha permesso alle famiglie e alle comunità di rimanere in contatto nonostante le restrizioni alla mobilità.
La necessità di dotarsi di una connessione adeguata a lavorare e a partecipare alla didattica a distanza, il ricorso all’e-commerce per acquistare e vendere, la familiarità con la Rete acquisita a forza di videochiamate e alleata dalla assidua lettura delle news online relative ai Dpcm di questi mesi, rendono lecito attendersi che il 2020 sarà salutato non solo come l’anno del Coronavirus, ma anche come il momento in cui l’Italia è finalmente diventata una società digitale.
Da anni, tutto questo è misurato, nell’ambito dell’Unione Europea, dal Desi Index, compilato dalla Commissione Europea per rappresentare la preparazione delle società alle sfide della Rete. Da anni il Desi vede il nostro Paese fanalino di coda nonostante investimenti pubblici e privati e a dispetto di una familiarità con cellulari e instant messenger diventata tratto distintivo dei nostri tempi e delle generazioni più giovani.
Figura 1. Il Desi Index e le aree da cui è costituito (fonte Commissione Europea, 2020).
Proviamo di seguito a capire le aree da cui è costituito il Desi Index ed i fattori che lo compongono: se non abbiamo infatti chiare le debolezze del sistema difficilmente potremo individuarne le aree di miglioramento e valutare se i mesi che abbiamo alle spalle siano stati capaci di attrezzare il Paese alle sfide del domani.
Delle cinque aree di cui è costituito il Desi Index, l’Italia è all’ultimo posto per la disponibilità di skills digitali professionali: l’assenza di un mercato diffuso in tutta Italia (la Lombardia, secondo un recente studio di Ambrosetti – The European House, rappresenta il 39% del valore del settore digital italiano) limita lo sviluppo di competenze locali e l’adozione delle relative tecnologie nei distretti territoriali che rappresentano l’ossatura economica del nostro Paese.
Figura 2. L’Italia è all’ultimo posto quanto alla preparazione del capitale umano nei confronti delle conoscenze digitali.
L’Italia è poi al terzultimo posto per attività condotte online (fruizione di news, video-chiamate, accesso ai social media, partecipazione a corsi e-learning, uso dell’Internet banking). Su questo fronte, uno studio condotto da Censis e Tim (che ha significativamente promosso un imponente progetto di formazione di base, “Risorgimento Digitale”), stima nel 2020 un poderoso salto in avanti con il 75% della popolazione adulta che durante il lockdown ha utilizzato Internet con regolarità e 43 milioni di persone che sono state in contatto fra loro attraverso le piattaforme di meeting online.
Figura 3. L’Italia è al terzultimo posto per uso di servizi digitali.
Per completare le aree di debolezza del nostro Paese considerate componenti del Desi Index, l’Italia è al sestultimo posto quanto alla capacità delle sue piccole medie imprese di vendere online e di avvalersi di tecniche di digital export: la dimensione delle imprese, le rigidità del modello di business in cui operano e gli annosi ritardi a investire in competenze e tecnologie sono stati nel tempo affrontati attraverso molteplici iniziative di formazione e di supporto da parte delle associazioni di categoria locali e dell’Istituto Commercio Estero, un abbrivio che le risorse di Next Generation EU possono ulteriormente contribuire a migliorare anche grazie alle tante collaborazioni in essere con piattaforme come Google, Amazon e Alibaba.
Figura 4. L’Italia è agli ultimi posti per e-commerce e digital export.
Il già citato “Rapporto sulla trasformazione digitale dell’Italia” elaborato dal Censis in collaborazione con il Centro Studi TIM stima che l’accelerazione digital che l’Italia ha vissuto durante il lockdown la porterebbe a un balzo in avanti di sei posizioni rispetto al 25° posto complessivo dell’ultima edizione del Desi Index. Non solo in considerazione del ricorso alla Rete per fare smartworking – 9 italiani su 10 hanno potuto continuare a lavorare a distanza online – ma anche grazie agli investimenti che sono stati fatti per accrescere la disponibilità di accesso alla Rete e ai servizi pubblici online.
Infatti, già nell’ultima edizione, l’Italia è al centro della classifica fra i Paesi europei per ciò che concerne la digitalizzazione della Pubblica Amministrazione, una classica media di Trilussa fra i tanti servizi della Pubblica Amministrazione offerti online alle piccole medie imprese e i pochi connazionali che si servono di strumenti amministrativi online. I casi di malfunzionamento di alcuni servizi (dal portale dell’Inps lo scorso aprile all’app IO in occasione del cashback di dicembre) non debbono portare a sottovalutare lo sforzo fatto per portare una più ampia base di cittadini a servirsi, durante il 2020, di strumenti come lo SPID e il fascicolo sanitario elettronico, anche se resta da valutarne la fruizione di lungo periodo. Detto questo, che 8,7 milioni di cittadini abbiano utilizzato per la prima volta servizi digitali della Pubblica Amministrazione è una notizia e questo valore influenzerà senza alcun dubbio positivamente la prossima edizione del Desi Index.
Quanto all’accesso alla Rete, il nostro Paese è al terzo posto per copertura e performance della connessione mobile dopo Finlandia e Germania, ma al penultimo posto in termini di penetrazione di connessioni fisse per cento persone: la struttura demografica del nostro Paese è certamente uno dei fattori da considerare per comprendere un limite che va riconosciuto non solo dal lato dell’offerta, ma anche dal lato della domanda. Nondimeno, questo tratto distintivo deve portare le aziende coinvolte a continuare a migliorare la copertura e la velocità della nostra Rete, soprattutto nelle aree del nostro Paese più svantaggiate, in considerazione anche di necessità come la didattica a distanza (che tarderanno a sparire del tutto dalle abitudini delle nostre giornate).
Figura 5. La penetrazione su 100 persone di connessioni fisse
Richiamando quanto avvenuto nel Novecento, definito non a caso il secolo breve perché iniziato davvero solo con la Prima Guerra mondiale, c’è chi sostiene che il nostro secolo sia iniziato proprio con la pandemia: difficilmente si può parlare di tale evento come un’opportunità per la trasformazione digitale delle imprese e delle società. Nondimeno, essa costituisce il banco di prova di fronte al quale il miglioramento organizzativo rappresentato dalla Rete debba essere affrontato in modo efficace dal nostro Paese, in una forma che ne rispetti l’origine di progresso diffusa dai suoi pionieri.