«Noi saremo al fianco di Eurostar». La scelta del governo francese, espressa dal ministro dei trasporti Jean-Baptiste Djebbari, sembra chiara. Parigi non verrà meno al suo impegno per salvare l’unica compagnia ferroviaria che, dal 1994 a oggi, ha segnato l’immaginario europeo trasportando oltre 190 milioni di persone. Londra, Parigi, Bruxelles e Amsterdam rischiano di perdere l’unico collegamento esistente a causa del coronavirus, che ha pesantemente ridimensionato il settore costringendo la compagnia a far quadrare i conti in maniera sempre più drastica. Se da un lato Parigi ha deciso di impegnarsi non è ancora nota la posizione di Londra, che sembra per il momento disinteressarsi nonostante abbia ricevuto un’accorata lettera di aiuto da parte di London First, società di lobby che ha evidenziato la preoccupazione di accademici e investitori.
L’impegno dell’esecutivo britannico, come quello degli altri governi interessati, diventa di stringente importanza visto che la compagnia rischia di fallire in primavera e il primo aiuto francese di 4 milioni di euro rischia di essere insufficiente. Come ha dichiarato l’amministratore delegato Jacques Damas all’AFP «la compagnia rischia di chiudere già in primavera, appena avremo finito i nostri soldi in cassa», e, secondo gli organi di stampa, potrebbe accadere molto presto visto che la società perde quasi un milione di euro al giorno.
Una crisi decisamente molto pesante. Nell’ultimo anno la compagnia ha perso il 95% dei propri clienti: un duro colpo per chi, nel solo 2019, aveva portato in giro per l’Europa ben 11 milioni di persone. Così, per far fronte a questa riduzione, la compagnia ha deciso di ridurre a uno al giorno i treni di andata e ritorno sulla tratta Londra-Parigi e Londra-Amsterdam, che però restano vuoti per l’80%, mettere il personale in cassa integrazione e prendere un prestito di 450 milioni di euro. Una cifra che si aggiunge a quella messa dagli investitori privati, ben 210 milioni di euro, perché Eurostar è in mani sia pubbliche sia private: il 55% delle quote è detenuto dalla società ferroviaria francese SNCF, il 5% dalla sua omologa belga e il restante 40% da investitori internazionali, come la Cassa di deposito del Québec (30%) e Hermes Infrastructure (10%), che hanno comprato nel 2015 le quote del governo britannico per oltre 850 milioni di euro.
«Salvaguardare il futuro di questa connessione con il Continente dovrebbe essere un simbolo sia del nostro desiderio di ricostruire sia del nostro nuovo rapporto di cooperazione con i vicini europei», ha dichiarato in una lettera indirizzata al governo inglese London First, preoccupata delle possibili ricadute che potrebbe subire il Paese. La crisi di Eurostar causerebbe un danno rilevante ai britannici: il fallimento della società porterebbe alla perdita di 1200 posti di lavoro più 1500 dell’indotto.
Questo potrebbe spingere il governo di Boris Johnson a intervenire, ma soltanto in zona Cesarini. Come ha malignamente fatto notare il Financial Times, «l’azienda è costata molto ai contribuenti britannici e ha cominciato a distribuire dividendi soltanto da quando Londra è uscita di scena, perciò, se dovesse scomparire l’azienda, si potrebbe subito rimpiazzare con un’altra». Un conto semplice ma efficace, soprattutto considerando che l’azienda è francese. Come ha fatto notare l’amministratore delegato di SNCF Christophe Fanichet a France Inter, «l’azienda viene un po’ ignorata dagli inglesi perché francese e dai francesi perché opera in Regno Unito e perciò viene un po’ malvista da entrambi».
Un’anomalia che rischia di diventare una valanga. Infatti, il rischio che la cassa di Eurostar abbia un passivo tra i 168 e i 224 milioni di euro già a giugno sembra sempre più concreto e questo potrebbe incidere in maniera pesante anche sul progetto Green Speed, cioè la fusione con Thalys, l’operatore ferroviario franco-belga specializzato in trasporti ecologici ad alta velocità.
La perdita di Eurostar sarebbe un danno grave per tutto il Continente. Oltre a Parigi, che ha già preventivato un investimento importante, ci sono anche Bruxelles e Amsterdam. Il ministro della Mobilità belga Georges Gilkinet sta valutando eventuali misure di sostegno, nonostante la legge europea lo impedisca, mentre nei Paesi Bassi si teme la fine del collegamento tra Londra e la capitale olandese, oltre che con Rotterdam.
Anche nel Parlamento britannico però qualcosa ha iniziato a muoversi. «Non possiamo permetterci di perdere Eurostar a causa di questa pandemia», ha dichiarato Huw Merriman, presidente della commissione Trasporti della House of Commons, che ha evidenziato come «Eurostar ha contribuito in maniera rilevante all’economia britannica con oltre 800 milioni di sterline all’anno e rappresenta un collegamento unico per la capitale».
E a chi sostiene che, se Eurostar dovesse fallire, si potrebbe facilmente rimpiazzare ha risposto John Keefe, direttore degli Affari pubblici di Getlink, società proprietaria dell’Eurotunnel sotto la Manica, che ha evidenziato come «a lungo termine, l’Eurostar è il mezzo del futuro: veloce, frequente, a basse emissioni di carbonio e con un grande potenziale di espansione verso altre destinazioni. I loro passeggeri d’affari e di piacere torneranno non appena le condizioni lo consentiranno».
La crisi dell’Eurostar potrebbe mandare in crisi anche l’Eurotunnel, quel «frutto dell’entusiasmo francese e del pragmatismo britannico» come lo definì la regina Elisabetta II il giorno della sua inaugurazione, il 6 maggio 1994. «Non vediamo davvero alcun aspetto positivo nel vedere Eurostar in difficoltà, perché semmai metterà in discussione la fattibilità a lungo termine di un ulteriore sviluppo del tunnel», ha dichiarato a Politico Conor Feighan, segretario generale della European Rail Freight Association, società che promuove il trasporto europeo sui binari. Ne è convinto anche Tony Berkeley, un consulente della società ferroviaria britannica Rail Freight Group che siede alla Camera dei Lord. «Ci sono poche possibilità che un altro operatore possa facilmente intervenire e sostituire Eurostar se dovesse fallire: dovrebbe sostenere dei costi di avvio ingenti. Ci vorrebbero anni». Adesso tocca a Boris Johnson.