Il 2020 si chiude come è cominciato. Anche l’ultimo dell’anno, come quasi tutti i giorni precedenti, i quotidiani sono pieni di esperti che ci spiegano perché Giuseppe Conte piace agli italiani, «nonostante tutto» (e mai come in questo caso l’espressione andrebbe intesa in senso letterale), con lo stesso tono con cui gli esponenti del comitato tecnico-scientifico sono soliti spiegarci che le misure prese contro il Covid stanno funzionando benissimo, nonostante continuiamo ad avere centinaia di morti al giorno (ieri 555), e i ministri ci ripetono che il ritorno a scuola «dei nostri ragazzi» è un «obiettivo prioritario», e ciò nonostante perlomeno metà di loro resterà a casa anche al prossimo giro.
Eppure, in una certa misura, anche considerando l’intrinseca inattendibilità di qualunque sondaggio politico, è vero, e bisogna riconoscerlo: c’è qualcosa che agli italiani evidentemente piace, o perlomeno non dispiace, in Conte e più in generale nel contismo. In questo stile al tempo stesso dimesso e pretenzioso, barocco e sgrammaticato, ampolloso e vacuo. Forse perché, sotto sotto, ha qualcosa di familiare, e perciò rassicurante.
Giusto ieri pomeriggio, mentre m’interrogavo su questo mistero angoscioso, sono stato colpito da un articolo dello scrittore Francesco Pecoraro, dedicato a tutt’altro tema – Roma, la sua struttura urbanistica e architettonica, la sua estetica – in particolare per il seguente passaggio: «Roma non è barocca. Cioè solo una minima parte di Roma è barocca. Roma non è nemmeno rinascimentale, e nemmeno neo-classica, e nemmeno eclettica. A Roma praticamente non esiste il gotico. E il paleo-cristiano, per quanto affascinante, vi è reperibile solo in pochi esemplari. Roma non è fascista che in minima parte. Lo stesso può dirsi della Roma umbertina. Lo stile prevalente (sarebbe meglio dire la natura prevalente) di Roma è palazzinesco».
Se non avete capito dove voglio arrivare, se quello «stile palazzinesco» non evoca in voi immediate e profondissime risonanze politiche, evidentemente è perché non avete ancora nelle orecchie, come ce l’avevo io mentre leggevo, la conferenza stampa di Conte. La spiegazione poi è ancora più illuminante: «Stile palazzinesco è quando prendi le semplificazioni linguistiche del modernismo, cui avrai preventivamente sottratto il razionalismo e aggiunto una buona dose di gne gne piccolo-borghese, e le applichi su una confusa struttura in cemento armato e — con piccole variazioni — ripeti questa unità edilizia sul territorio, estensivamente e all’infinito, secondo un’urbanistica accomodata alle esigenze dello speculatore».
Tenete a mente queste parole e ripensate ora alla conferenza stampa di fine anno. Sapendo che la prima caratteristica dello stile di cui stiamo parlando è la sua pervasività, cioè la capacità di estendersi, abbracciando, inglobando e uniformando a sé tutto quanto sta intorno. Come quando gli scienziati di corte, per fare un solo esempio, ci spiegano pudicamente che nei contagi si è verificato un «rallentamento della decrescita».
Così non c’è solo il capo del governo che discetta di ristori, autodichiarazioni, affetti stabili e affini. Ci sono i giornalisti che esordiscono presentando al capo del governo gli auguri di un prospero e felice anno nuovo, a nome loro e di tutta la testata che hanno l’onore e l’onere di rappresentare (mancavano solo un piccolo inchino e la poesia di Natale, ma probabilmente non c’era tempo), cui immancabilmente il capo del governo replica con un cortese «anche a lei e a tutta la redazione». Per non parlare del presidente dell’Ordine dei giornalisti il quale, in quanto «fanatico dell’articolo 3 della Costituzione», toglie la parola alla giornalista (Claudia Fusani) che aveva appena fatto la domanda e, non avendo ottenuto risposta, aveva avuto l’ardire di insistere. E lo fa, come qui è già stato notato, condendo il tutto con un perfetto condensato dello stile che sto cercando di definire: «Ti ringrazio per avermi ringraziato». Perché in fondo, quanto meno nelle intenzioni degli organizzatori, cos’altro doveva essere la conferenza stampa di fine anno, come ogni conferenza stampa governativa da marzo a oggi, se non un’interminabile, cerimoniosa, stucchevole giornata del reciproco ringraziamento?
D’altra parte, non c’è una sola vera domanda a cui Conte abbia risposto, né in questa, né in nessuna delle precedenti occasioni. A meno che non si consideri una risposta la consueta, uniforme, interminabile distesa di prefabbricati concettuali ammucchiati uno sull’altro, in un labirinto insensato di circonlocuzioni che non portano mai a niente. Dalle carceri («la situazione carceraria è all’attenzione del governo, e poi ovviamente tutte le discussioni per quanto riguarda soluzioni che richiedano una chiara connotazione politica sono all’ordine del giorno e dovremo discuterle tutti insieme») al piano vaccini («per quanto riguarda il piano, abbiamo fatto una scelta anche qui che credo di grande prova democratica, se mi permette, cioè il ministro della Salute è andato in Parlamento») fino all’annosa questione del federalismo («in prospettiva futura si può lavorare secondo me all’autonomia differenziata, a decentrare alcune attività amministrative e potenziare da questo punto di vista anche, come dire, le competenze regionali, ma nello stesso tempo, a futura memoria, dobbiamo anche dotarci di un sistema che quando ci sono delle sfide così complessive per tutta la comunità nazionale un meccanismo di coordinamento più efficace ci dev’essere»).
A futura memoria, e sperando di superare anche le sfide più complessive del 2021, è giusto riconoscere che in tutto questo c’è molto del carattere nazionale. Un linguaggio e un modo di stare sulla scena insieme pomposo e sgraziato, che sarebbe ingiusto attribuire al solo Conte, ed è semmai la vera cifra stilistica di un’intera classe dirigente, ben rappresentata dalle parole pronunciate a Radio Radicale da Giovanni Rezza, direttore generale della prevenzione presso il Ministero della Salute: «Abbiamo il calendario vaccinale più bello d’Europa, e forse del mondo».