«A nome del Governo, dello Stato e dei suoi cittadini, chiedo scusa per il profondo torto generazionale inflitto alle madri irlandesi e ai loro figli che sono finiti in una Casa per madri e bambini o in una Casa di contea». Le parole del primo ministro (taoiseach) irlandese Micheàl Martin sono sembrate macigni nell’aula del Dàil, la camera bassa del parlamento irlandese. Anche senza una crisi di governo come nei Paesi Bassi, questa dichiarazione rappresenta un momento importante nella storia recente del Paese, vista la pubblicazione del quinto rapporto della “Mother and Baby Homes Commission of investigation”. Duemilaottocentosessantacinque pagine che hanno letteralmente sconvolto l’Irlanda.
Per oltre 70 anni, dalla sua indipendenza nel 1922 fino al 1998, Dublino ha marginalizzato 56 mila donne non sposate e 57 mila bambini nati fuori dal matrimonio, costringendole a partorire in istituti religiosi per non sporcare l’immagine di un Paese cattolico e devoto. Secondo il rapporto ben 9 mila bambini sarebbero morti in questo periodo, a causa di incuria, malattia e malnutrizione, registrando un tasso di mortalità due volte superiore rispetto a periodi storicamente difficili per l’infanzia, come il biennio 1945-1946.
Alle scuse del primo ministro hanno fatto seguito anche quelle del primate cattolico irlandese Eamon Martin, che ha dichiarato: «Sono d’accordo sul fatto che la Chiesa fosse chiaramente parte di quella cultura in cui le persone venivano spesso stigmatizzate, giudicate e rifiutate. Per questo, e per il dolore di lunga durata e il disagio emotivo che ne è derivato, mi scuso senza riserve».
Il caso ha avuto un enorme eco in Irlanda, arrivando a superare persino le notizie sull’emergenza sanitaria ancora in corso, con pareri discordanti. L’ex vice primo ministro Joan Burton, nata nel 1949 in una delle famigerate “Mother and Baby Homes”, ha dichiarato all’Irish Indipendent che «questo rapporto rivelerà, in particolare a una nuova generazione di giovani, ciò che l’Irlanda ha fatto una volta alle donne che hanno avuto l’audacia di amare al di fuori del matrimonio e di avere figli a cui è stato necessario “rinunciare”».
Non è d’accordo la “Coalition of Mother and Baby Home Survivors”, che sostiene che il rapporto presentato al Dàil «sia fondamentalmente incompleto in quanto ignora la questione più ampia della separazione forzata delle madri single e dei loro bambini sin dalla fondazione dello Stato come questione di politica statale».
La storia è cominciata nel 2014, quando fu scoperto in un giardino una fossa comune con circa 800 neonati a Tuam, nella contea di Galway. Nascosta in una struttura per lo stoccaggio delle acque reflue, le autorità locali l’attribuirono all’ex casa per madri e bambini locale, la “Bon Secours Mother and Baby Home”, chiusa da alcuni decenni. Il sospetto è diventato certezza quando la storica Catherine Corless ha ritrovato i certificati di morte di quasi 800 neonati della struttura ma il certificato di sepoltura soltanto di uno.
La storia di Tuam, aperta nel 1925 e chiusa nel 1961, è molto simile a quella di altre strutture presenti nel Paese dove in quegli anni 35 mila madri single furono costrette a partorire e a lasciare lì i loro figli. Le condizioni erano talmente difficili che, secondo il rapporto, tra il 1925 e il 1961 a Tuam sarebbe morto in media un bambino ogni due settimane. In queste case erano ospitate anche ragazze madri e donne incinte, costrette a partorire in gran segreto e spesso trattate con modi ai limiti del legale.
Lo dimostra la storia della mamma di Fionn Davenport, nato in una di queste strutture, raccontata a Euronews. «Subito dopo la mia nascita, la mamma ha cambiato idea e ha detto di voler tenere il bambino, ma le suore hanno detto “no, non ti è permesso, hai firmato i documenti, hai firmato i moduli, quindi hai rinunciato a tutti i tuoi diritti su questo bambino”». Un’autentica menzogna, visto che la legge sulle adozioni del 1952 dava 6 mesi di tempo alle ragazze madri per riprendersi il bambino. Un sistema che mancava di amore e misericordia, come dimostra la storia di Mary, nata in una struttura di Dublino: «Mia mamma aveva fatto a maglia i miei vestitini e, dopo che mi avevano consegnato alla mia madre adottiva, le suore hanno riportato i vestiti che mia mamma aveva fatto per me, glieli hanno gettati in faccia dicendo: “A Mary non serviranno più, ora ha dei vestiti veri!” E questo ha spezzato il cuore di mia mamma».
Un sistema gestito da suore e religiosi in cui lo Stato irlandese ha svolto il ruolo di grande assente, mandando di rado qualche ispezione ma difatti facendo finta di nulla. Eppure, le notizie non mancavano: i primi report giunti al Parlamento di Dublino risalgono al 1933 ma allora era troppo comodo far finta di niente e buttare la polvere sotto il tappeto. Cosa che secondo i superstiti di queste strutture farebbe ancora adesso perché, nonostante le scuse del taoiseach, lo Stato irlandese non permette ai suoi cittadini di conoscere la verità sulle loro origini, su chi siano davvero i loro genitori, i loro figli, i loro fratelli e sorelle.
In Parlamento le opposizioni hanno chiesto al premier di dare alle vittime di tali abusi accesso alle proprie informazioni, cosa finora sempre negata. Un altro punto dolente è rappresentato dalla mancanza di prove di abusi o di costrizioni su queste ragazze madri, come sottolinea il rapporto. Coloro che hanno vissuto l’esperienza delle Case per madri e bambini raccontano tutt’altro: donne portate lì contro la loro volontà, ragazze incinte schiaffeggiate per non aver lavorato abbastanza duramente, bambini picchiati fino a sanguinare e a restare incoscienti.
Per questo per molti la dichiarazione del taoiseach, che ha dato la colpa alla società irlandese del periodo, è sembrata fuorviante visto che rendere tutti responsabili difatti non rende nessuno davvero responsabile di quello che è successo. Una brutta pagina nella storia di Irlanda.