Anche alla vigilia dell’insediamento Biden non ha mancato di stupire e l’ha fatto con una nomina, che lui stesso, nell’annunciarla, non ha esitato a definire storica. È stata infatti designata come viceministra o “segretaria assistente” alla Salute la pediatra e accademica transgender Rachel Levine. La medica sessantaquattrenne, la cui nomina dovrà essere confermata dal Senato, sarà infatti la prima persona transgender nella storia degli Stati Uniti a ricoprire un incarico dirigenziale a livello federale.
Nominata nel 2017 segretaria alla Sanità della Pennsylvania dal governatore democratico Tom Wolf e confermata per tre volte dal Senato statale controllato dai repubblicani, la dottoressa Levine si è fatta soprattutto apprezzare per l’impegno e le competenze nella gestione della crisi pandemica. Docente di Pediatria e Psichiatria presso il Penn State College of Medicine e presidente dell’Associazione dei funzionari sanitari statali e territoriali (Ashto), è autrice di studi sulla marijuana a uso medico, sulla salute degli adolescenti, sui disturbi alimentari e sulla medicina Lgbtq+.
Il suo attivismo, che si è intensificato a partire dal 2011, anno della transizione, l’ha portata a essere nominata componente del direttivo dell’associazione Equality Pennsylvania.
Interessante notare come Biden, nel rendere pubblica la nomina di Levine, ne abbia sottolineato leadership e profonda esperienza, qualità necessarie per «far superare alle persone questa pandemia, indipendentemente dalla loro origine, razza, religione, orientamento sessuale, identità di genere o disabilità».
Presente nell’ordinamento statunitense e internazionale, l’espressione identità di genere – che da noi è invece contestata senza argomenti dalle solite oltranziste pro-Rowling twittante e da alcune senatrici (eh, sì) del Partito Democratico – è un ennesimo atto di linguaggio rispettoso, oltre che di attenzione, verso le persone trans. Che non a caso, il 7 novembre, lo stesso Biden aveva espressamente ringraziato e menzionato nel primo discorso da presidente eletto come parte della «più della più grande e diversificata coalizione che abbiamo formato insieme nella storia».
Anche in questo il 46° presidente degli Stati Uniti marca una decisa differenza rispetto al predecessore Donald Trump, che per compiacere un elettorato fondamentalista cristiano ha adottato diverse misure controverse contro le persone transgender a partire dal divieto di prestare servizio nelle forze armate. Volontà chiara di revocare quanto disposto in materia da Barack Obama ma solo parzialmente realizzata.
Infatti, dopo la temporanea legittimità riconosciuta il 22 gennaio 2019 dalla Corte Suprema alle restrizioni militari per le persone trans, il 12 aprile successivo il Pentagono adottava norme penalizzanti in materia ma comunque non rispondenti all’indirizzo trumpiano di totale messa al bando.
Le nuove regole consentono alle persone transgender in servizio e alle stesse arruolate entro il 12 aprile di poter continuare a sottoporsi a trattamenti ormonali o a eventuali interventi di riassegnazione chirurgica del sesso. Dopo il 12 aprile a nessuna persona con diagnosi di disforia di genere è stato permesso di essere arruolata, a meno che non serva in base al genere di nascita con conseguente esclusione dall’accesso ai trattamenti ormonali o all’intervento chirurgico. Al riguardo continua la battaglia legale in appello mentre non pochi giudici federali, prima della sentenza di temporanea legittimità, avevano bloccato la normativa trumpiana ravvisando in essa profili di incostituzionalità.
Sul fronte dei diritti delle persone trans Trump ha invece incassato una cocente sconfitta il 15 giugno scorso, quando la Corte Suprema ha stabilito a larghissima maggioranza (sei a tre) come il titolo VII del Civil Rights Act del 1964, che vieta le discriminazioni da parte dei datori di lavoro sulla base di razza, colore, religione, sesso o origine nazionale, sia da estendersi anche a quelle per orientamento sessuale o identità di genere. Nessuna persona, insomma, può essere licenziata per il fatto di essere omosessuale o transgender.
L’ultimo atto anti-trans dell’amministrazione Trump, emesso tre giorni prima della sentenza della Corte Suprema, è contenuto nel regolamento del Dipartimento della Salute e dei Servizi umani, secondo il quale l’Affordable Care Act del 2010 (più noto come Obamacare), che, oltre alle discriminazioni basate su razza, colore, nazionalità, età e disabilità in qualsiasi programma o attività sanitaria finanziata a livello federale, vieta anche quelle “sulla base del sesso”, non si estenderebbe a consimili condotte in riferimento all’identità di genere. Una sconfessione, in realtà, del regolamento del 2016, con cui l’amministrazione Obama aveva specificato che le discriminazioni basate sul sesso includono anche quelle per identità di genere.
Ma a contestarne la legittimità e a bloccarne l’entrata in vigore per parte dell’area newyorkese ci ha pensato, il 17 agosto, Frederic Block, giudice della Corte distrettuale per le contee Kings, Nassau, Queens, Richmond, and Suffolk (Eastern District) di New York con una popolazione di otto milioni d’abitanti. Nel motivare la sua decisione il magistrato ha fatto esplicitamente riferimento, come termine di paragone imprescindibile, proprio alla recente sentenza della Corte.
E si può verosimilmente prevedere che le misure disposte dall’amministrazione Trump, già definite «una discriminazione pura e semplice» dal presidente di Human Rights Campaign Alphonso David, saranno a breve accantonate dal presidente dell’unione e dell’inclusione. Lo stesso, cioè, che ha meravigliato il mondo intero citando sant’Agostino nel discorso d’insediamento.