«Sta’ zitto e palleggia».
Questo è quello che una conduttrice televisiva aveva consigliato a LeBron James dopo che lui, in un’intervista del 2018 alla espn, aveva discusso di razzismo, di politica e della difficoltà di essere nero e di essere anche una figura pubblica in America.
Non c’è bisogno di dire che lui non ha seguito il suggerimento.
Il LeBron attivista ha catturato per la prima volta la mia attenzione nel 2012. Lui e i suoi compagni di squadra dei Miami Heat avevano postato una fotografia che li ritraeva col cappuccio della felpa tirato sulla testa come segno di protesta per l’uccisione di Trayvon Martin, un teenager nero disarmato della Florida che indossava una felpa con il cappuccio quando fu ferito a morte da un colpo sparato da George Zimmerman, un volontario delle “ronde di vicinato”.
Nel 2014, un altro nero, Eric Garner, morì a Staten Island dopo che degli agenti di polizia lo avevano stretto in una presa di soffocamento, una mossa che a quel tempo era vietata dalla polizia e che da allora è diventata illegale in tutto lo Stato di New York. Poco dopo, durante un riscaldamento prepartita, LeBron indossò una T-shirt con le parole “I can’t breathe” (“Non riesco a respirare”), le ultime parole di Garner, catturate da un video girato mentre gli agenti lo strangolavano.
Saltiamo direttamente alla scorsa estate, ed eccolo ancora al centro di un dibattito culturale: LeBron ha la voce più potente e la tribuna più visibile e le sta usando per protestare contro il razzismo sistemico, le disuguaglianze e la brutalità della polizia. E il tutto avviene mentre continua a giocare alla grande, a dispetto dello svolgimento di proteste senza precedenti, di una pandemia che ha cambiato il mondo e di profondi dolori personali, tra cui la tragica morte del nostro comune amico Kobe Bryant.
LeBron è straordinariamente coraggioso nel suo indefesso sostegno alla comunità nera. È risoluto, chiaro e appassionato. Sia in campo sia davanti a un microfono, è impossibile fermarlo ed è un’ispirazione per gli altri. È dedito al suo mestiere, ma è anche dedito alla sua comunità, benché debba continuamente lottare contro una consolidata storia di silenziamento degli atleti che dicono la loro.
I musicisti cantano e scrivono sempre dei movimenti sociali, dell’attivismo e dell’uguaglianza. Gli attori dicono a voce alta le loro opinioni e spesso danno il loro personale endorsement alla candidatura di un politico, ospitando attività di fundraising e dando delle feste. E dagli imprenditori, dagli scrittori e dagli artisti addirittura quasi ci si aspetta che abbiano un’opinione sulle ultime notizie e che difendano pubblicamente il loro parere. Ma, quando si tratta di noi atleti, spesso riceviamo critiche per aver espresso le nostre opinioni.
Le gente vede in noi soltanto dei “corpi” che riescono a compiere ciò che sarebbe fisicamente impossibile per quasi chiunque altro e che divertono i fan spingendosi sempre oltre i propri limiti? Non ci si immagina che questi insiemi di muscoli, ossa, sangue e sudore possano essere anche capaci di esprimere un’opinione? Lo sport dovrebbe essere solo sport e la politica solo politica?
Spesso il messaggio è questo. Colpisci la palla. Affonda il colpo. Sta’ zitto e palleggia.
Ma, quale che sia il ragionamento, si ignora sempre un elemento determinante: quando non stiamo svolgendo una performance atletica, viviamo nello stesso Paese in cui vivono gli altri. E, come moltissimi atleti possono oggi testimoniare, ciò significa che siamo soggetti alle stesse ingiustizie e agli stessi trattamenti disuguali che hanno condotto all’uccisione di persone che hanno esattamente il nostro stesso aspetto, ma che non godono delle stesse protezioni che ci sono offerte dalla nostra celebrità e dal supporto che possiamo avere. Provate a chiedere al cestista della nba Sterling Brown, che un poliziotto ha colpito con un taser. O al mia collega, il tennista James Blake, che, mentre si trovava fuori da un albergo di New York, è stato sbattuto a terra e ammanettato per quindici minuti da alcuni agenti (che hanno poi sostenuto che si fosse trattato di un errore di persona). Il solo fatto che siamo degli atleti non significa che quello che succede attorno a noi, nel Paese in cui viviamo, non ci coinvolga. Né ci può costringere a tenere la bocca chiusa.
Gli sport non sono mai stati apolitici e, finché saranno praticati da degli esseri umani, apolitici non lo saranno mai.
Muhammad Ali è stato per decenni una voce a favore della giustizia, persino dopo essere stato condannato a cinque anni di prigione per aver rifiutato la chiamata dell’esercito a causa delle sue convinzioni religiose. Alle Olimpiadi di Città del Messico del 1968, Tommie Smith e John Carlos furono fischiati quando sul podio sollevarono il pugno guantato di nero e in seguito, quando fecero ritorno negli Stati Uniti, dovettero affrontare un’ondata di critiche da parte del pubblico e anche dei media.
Colin Kaepernick ha messo a repentaglio la sua carriera quando si è inginocchiato durante l’inno nazionale prima di una partita della nfl e ha rischiato di non giocare mai più un down in quella lega a causa di quel gesto. Megan Rapinoe è stata una convinta sostenitrice del movimento lgbtq e di quello per l’uguaglianza salariale, anche quando questo ha comportato affrontare il presidente degli Stati Uniti e rifiutarsi di andare in visita alla Casa Bianca. Venus Williams ha fatto più di quanto la gran parte della gente non sappia per coltivare l’eredità di Billie Jean King nella lotta per l’uguaglianza per le donne nel tennis. Coco Gauff, pur essendo così giovane, è intensamente attiva online e ha parlato pubblicamente e in modo molto appassionato a sostegno della campagna Black Lives Matter.
Ma, anche dopo tutti questi passi avanti, continuo a pensare che noi atleti abbiamo ancora tanta strada da fare. Oggi, grazie all’attenzione televisiva che riceviamo e alla nostra massiccia presenza sui social media, noi atleti abbiamo una tribuna più grande e più visibile di quanto non lo sia mai stata. Per come la vedo io, questo significa che abbiamo anche una maggiore responsabilità di esporci pubblicamente. Io non palleggerò stando zitta.
©️ 2020 The New York Times Company & Naomi Osaka
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