Il tempo perdutoLa paura e la voglia di diventare famose delle ragazze anni 80

I ricordi che ritornano, gli anni del liceo, le ragazze bellissime e una adolescenza che non passa mai. Il mondo antico di ciascuno si ritrova e permane nel libro di Teresa Ciabatti, che in “Sembrava bellezza” (Mondadori) racconta una vicenda di giovinezza cristallizzata in un presente immobile

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A inizio anni Ottanta si diceva che nei camerini di un noto negozio di abbigliamento, via del Corso, Roma, sparissero le ragazze. Si apriva una botola sotto i piedi, e puf. Destinate alla tratta delle bianche, le sventurate venivano vendute in Arabia o Turchia, e di loro non si sapeva più nulla. Opinione diffusa – leggenda metropolitana o no – che Mirella Gregori e la più famosa Emanuela Orlandi avessero fatto quella fine.

Entrate nel negozio a provarsi i jeans, botola. Ammettetelo: quante di voi hanno desiderato essere la ragazza sui manifesti dai lunghi capelli scuri, e dalla fascetta sulla fronte. Ammettiamolo, quante di noi hanno iniziato a portare la fascetta, ora di spugna, ora di stoffa.

Hippie, scomparse. E quante – guardiamoci in faccia, ragazze degli anni Ottanta, confessiamolo –, quante si sono immaginate nelle mani di rapitori dapprima violenti, poi innamorati (follemente innamorati di noi!), che alla fine ci lasciavano andare, e noi, sempre noi – belle brutte, more bionde, ricche povere; il desiderio, la nostra livella sociale –, noi tornavamo a casa nell’applauso della folla. Tornavamo da padri che ci avevano fin lì ignorate, da madri prese unicamente da loro stesse (frivole o depresse, comunque di concentrazione egotica parliamo, la quale generava la nostra uguaglianza, di nuovo. Di nuovo più simili di quel che sentivamo).

Tornavamo. E da quel momento eravamo popolari, tutti a voler uscire con noi, a contendersi la nostra amicizia, a offrirsi di non lasciarci sole per impedire che riaffiorassero i ricordi della prigionia.

Viceversa, in un secondo momento – Emanuela che non tornava –, quante di noi si sono sognate nella botola, legate, imprigionate. Vendute, uccise. Convincendoci che in fondo casa nostra non era così male, al pari della nostra famiglia, il luogo meno pericoloso (altra certezza che si sarebbe presto sgretolata).

Questa è sì la storia di Livia, ma nel profondo, in senso universale, è la storia delle ragazze di quella generazione. Questa è la storia di Emanuela Orlandi, che, nonostante fossero passati sei, sette anni, poi otto, nove, era ancora nella nostra mente.

La parte eroica di noi, quella che fronteggiava i rapitori – nell’angolo oscuro della nostra immaginazione, figuriamoci l’immaginazione come una grotta. Nell’angolo Emanuela eroica, e via via più fragile.

Vieni qui, dicevamo nell’intimo a quella parte dispersa. Non piangere. Pomeriggio davanti alla tv. Sullo schermo l’immagine di Emanuela, ricorrono cinque anni, la famiglia chiede di non dimenticare, dice la voce del giornalista.

Falla finita, scatta Livia rivolta a qualcuno che non siamo noi, una terza ragazza invisibile, Emanuela, un concetto. La somma di tutte noi. Sbuffa, chiede di passarle il telecomando. Non c’è qualcosa di più allegro?

Mentre noi palpitiamo per avere un ragazzo, Livia è stufa. A diciassette anni ha avuto ogni tipo di esperienza sessuale, stando alle confidenze che ci fa le poche volte che è a casa. Vorrei delle emozioni diverse, dice.

Tipo? Qualcosa che succede solo a me. Una sera ci avrebbe rivelato di essere andata nel famoso negozio, aver preso abiti a casaccio, essersi barricata nel camerino. Ci rivela di aver chiuso gli occhi, e aspettato che si aprisse la botola sotto i piedi.

In quegli anni, tra le ragazze, serpeggiava il desiderio di diventare qualcuno. Alla stessa Livia non bastavano i confini della scuola, quantunque si estendessero al quartiere, chi non sapeva della bionda che se lo faceva mettere dietro.

Era giunta voce anche a noi che scandalizzate giuravamo mai e poi mai, sperando nel profondo delle nostre anime confuse di venir meno il prima possibile al giuramento. Essere riconosciuta per strada, sospirava Livia.

A posteriori, perciò – l’intera giovinezza di Livia va spiegata a posteriori –, l’uomo fuori scuola che distribuiva volantini le deve esser parso un’occasione. Cercava la protagonista per un film. Presentatevi al provino, diceva, entrate nel mondo del cinema. Qualcuna timida, qualcuna sfacciata, tutte a prendere il volantino. L’idea della tua faccia sullo schermo di un cinema, e i maschi che non ti hanno amata in platea. L’umiliazione fu di tante, caduta collettiva. La delusione condivisa quando lo sguardo dell’uomo fissa un punto sopra le nostre teste, e quel punto è Livia. L’uomo deve pensare che sia lei quella giusta.

Folgorato, come capitava a chiunque la vedesse (o forse era un’esasperazione nostra, necessaria per la mortificazione, in giovinezza non c’è spazio per le vie di mezzo, e noi dovevamo rappresentare gli scarti). Dunque l’uomo sorpassa tutte noi, e va incontro a Livia. Le parla, si accalora, congiunge le mani a mo’ di preghiera. Muove un braccio a delimitare un cerchio. Cerchio di luce al cui centro potrebbe esserci lei – immaginiamo le parole –, diventa la regina.

Da quaggiù, dalla nostra visuale, Livia non pare interessata, portandoci a pensare che a breve gli volterà le spalle come è solita fare coi maschi di ogni età. Inaspettato ciò che segue: si allontanano insieme, lui non smette di parlare, chissà che non le prospetti l’America, Hollywood. Lei starà pensando: laido, vecchio. Di sicuro lo pensa, ora arriva l’umiliazione, sta per arrivare, e noi a goderci lo spettacolo.

Attenzione, ragazze degli anni Ottanta/Novanta, attenzione a questo preciso istante: Livia, la migliore di noi, monta sulla macchina dello sconosciuto. Renault blu, avrei testimoniato in seguito.(All’epoca non valeva la regola di non accettare passaggi dagli sconosciuti. Salire e scendere dalle macchine di tutti. Come Emanuela, vista salire per l’ultima volta su una BMW verde).

da “Sembrava bellezza”, di Teresa Ciabatti, Mondadori, 2021, pp. 240, euro 18,00

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