Sentirsi in colpaBritney Spears, Flavia Vento e l’arte di compatire le popstar, anziché i picchiatelli

Il documentario del New York Times dedicato alla cantante dà voce a una schiera di senonoraquandiste che dicono un mare di ovvietà. Tipo quella volta della telefonata di Tom Cruise che non arrivò mai

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Da quando ho visto il documentario del New York Times su Britney Spears, penso tantissimo a Flavia Vento. Se vi risulta ovvio il perché, non avete bisogno di continuare a leggere. Per tutti gli altri, continuo a scrivere.

Il New York Times, dunque, produce questo documentario intitolato Framing Britney Spears, che qui tradurrò non come il framing di Lakoff – cioè: la parola che, in Non pensare all’elefante, indica il trucco d’incorniciare un tema con parole che lo mostrino agli altri nella chiave che fa comodo a noi – ma come quello di Who framed Roger Rabbit: chi ha incastrato Britney?, si chiede il grande giornale che decide di dar corda ai picchiatelli la cui battaglia sociale è la liberazione d’una multimilionaria. (Perché un grande giornale dia corda ai picchiatelli è una domanda alla quale arriveremo poi).

Sono più di dodici anni che Britney Spears è stata messa sotto tutela (del padre) da un tribunale che l’ha dichiarata incapace d’intendere. Poiché viviamo in un mondo in cui le decisioni dei tribunali contano relativamente (se la folla acclama Barabba avrà le sue ragioni, diamine), che quello praticato nei confronti di Britney sia un sopruso viene considerato ovvio, e altre ovvietà ne discendono, tra le quali la madre di tutte le ovvietà. A un uomo non sarebbe mai successo, dice una delle picchiatelle che manifestano, riprese dalla troupe del Nyt, picchiatella ignara che questa sua istanza, semplicistica e irrazionale, la renda pronta per fare l’editorialista di grandi giornali.

A un certo punto una delle intervistate – quelle autorevoli col sottopancia, non le picchiatelle – stigmatizza il fatto che un conduttore televisivo avesse chiesto alla Britney decenne, in un programma in cui aveva cantato da bambina, «ce l’hai il fidanzato?». Certo, sbuffa la senonoraquandista che l’America si merita, cos’altro vuoi chiedere a una donna? Ma, benedetta figliola, non era una donna: aveva dieci anni. Cosa vuoi mai chiedere, a una decenne, se pensa che la provincia americana la renda meglio Faulkner o Tennessee Williams?

Un’altra ci spiega, in tutta serietà e senza che nessuno la contraddica, che quelli erano anni di cantanti maschi, che le ragazze non vendevano. Gli anni delle invendute Alanis Morissette e Sheryl Crow. Un’altra ancora dice che nessun cantante maschio di boy band è mai stato sotto la lente d’ingrandimento della stampa. Nessuno le ricorda l’esistenza di Robbie Williams.

Ci sono anche dei dettagli interessanti, nel documentario, sebbene liquidati in cinque secondi; per esempio la crisi della transizione da piccola star (Britney era nel Club di Topolino, trasmissione per l’infanzia: qualcuno dovrebbe assemblare due ritratti paralleli, il suo e quello di Bonolis) a ragazza ammiccante: diventò famosa col video d’una canzonetta moschicida, video nel quale era vestita da pornocollegiale, aveva diciassette anni, e prima di allora era tornata per due anni in Louisiana.

Andava a scuola, nessuno la fotografava, la filmava, le chiedeva autografi: smettere con la celebrità è più o meno difficile che smettere con l’eroina? E cosa ne sarà di tutti i ragazzini oggi instagrammati da genitori smaniosi e convinti che ogni loro azione vada eternizzata, quando nessuno li filmerà più?

Il padre, accusano vibrantemente nelle interviste, voleva che lei diventasse ricca e lo mantenesse. Mentre in genere si sa che i genitori che avviano i figli a carriere di popstar lo fanno perché tengono a che essi si esprimano, e le stesse popstar che di mestiere sculettano sul palco covano una vocazione francescana.

Il fatto è che abbiamo deciso di sentirci in colpa. Come società, dico. Il nostro principale passatempo è sentirci in colpa per la crudeltà del Novecento (e dei suoi strascichi). Ogni giorno su Twitter mi passa davanti qualche contrizione per come siamo stati cattivi con Monica Lewinsky. È vero che ML è stata – parole sue – il paziente zero dei linciaggi social, e lo è stata prima che esistessero i social; ma la domanda successiva (parente di «che cosa chiedi a una bambina di dieci anni») è: in che modo parli di una il cui elemento di celebrità è aver scambiato liquidi organici col presidente degli Stati Uniti? (E anche: se ML non avesse da quarantenne fatto il miglior uso possibile dei social, dimostrandosi su di essi assai sagace e pure bella, ci dispiacerebbe altrettanto averla irrisa da ventenne?).

Era un secolo crudele: Chelsea Clinton era bruttina come lo sono sempre le ragazzine tredicenni, e tutti ritenevano loro diritto infierire. Ma siamo passati alla ridicolaggine opposta: oggi, se una ventunenne non più piacente della Chelsea tredicenne viene scritturata da un’agenzia di modelle, fingiamo di trovarla adeguata a quell’impiego e ci guardiamo bene dal dire che è accaduto solo perché è la figliastra di Kamala Harris. Viviamo nel terrore non di essere crudeli, ma di sembrarlo.

Poi per forza i grandi giornali ci assecondano: è difficile resistere al mercato, amore mio.

Il documentario su Britney ha risvegliato ogni «e ricordiamoci e pentiamoci di come abbiamo maltrattato Tizia» nella storia della cultura popolare. L’altroieri Twitter, uno dei posti meno capaci di comprendere il tono d’un testo che la storia del mondo abbia mai concepito, chiedeva la testa di Rich Cohen, che nel 2009, intervistando Jessica Simpson, raccontava che, poiché le domande sul suo peso erano proibite, lui non riusciva a pensare ad altro che a domande che cominciassero o finissero con «ora che sei ingrassata».

Non importa che quel tormentone dicesse dell’autore e non della Simpson: importa solo che è proibito fare considerazioni non elegiache sul corpo di coloro il cui lavoro è esporre il corpo. Qualcuno ha tirato fuori una storia raccontata da Ronan Farrow, su JS che ci era rimasta male perché un comico aveva fatto una battuta sul suo essere non proprio sveglissima, e io ho ripensato a Flavia Vento.

Una sera dell’estate del 2000 mi ritrovai a cena con lei. C’era altra gente, lei escludo si sia accorta della mia presenza a quel tavolo, ma io ero ipnotizzata da lei, che passò la cena a chiedere all’autore del programma che conduceva allora di controllare il cellulare, sul quale era convinta che Tom Cruise l’avrebbe chiamata (l’aveva intervistato quel pomeriggio). Ho passato anni a raccontare di Flavia che aspetta la telefonata di Tom, e neanche ho mai articolato una pubblica contrizione.

Forse da queste parti il pentimento per la crudeltà da spettatori non è ancora arrivato, altrimenti ci sarebbe almeno un documentario in cui la società civile esprima contrizione per come parlò delle Olgettine. A Flavia Vento, non solo non abbiamo mai chiesto scusa per averla messa sotto il tavolo di plexiglass (se lo sapesse un giornale americano, ci farebbe espellere dalla Nato); ma, quando mesi fa è uscita piangente dal Grande Fratello perché le mancavano i suoi cani, l’opinione pubblica ha sghignazzato senza esitazioni.

Eppure, non sono convintissima che sia meglio lì, col dovere di dire «poverina» a tutte. Ho una tazza con scritto «Britney è sopravvissuta al 2007, tu puoi cavartela oggi». Il 2007 è quando Britney si rasa a zero e prende a ombrellate una macchina di paparazzi. Il problema è di chi in quelle immagini d’esasperazione vede la pazza, mica un assedio disumano attorno a una col difetto d’essere famosa; il problema è nostro, mica suo. I capelli ricrescono, quel che non ti uccide ti tempra.

Twitter vuole anche la testa di Diane Sawyer, colpevole di avere nel 2003 – ma loro l’hanno scoperto in un documentario del 2021 – riferito a Britney che la moglie del governatore del Maryland la considerava un cattivo esempio per i bambini e le voleva sparare. Nessuno sembra aver notato che la Spears del 2003 se la cavò brillantemente: mica sono la babysitter dei suoi figli, rispose.

Non possiamo riconoscere forza e autonomia e capacità di cavarsela alle donne oggetto di battute, altrimenti restiamo senza ruolo. Sentirsi in colpa e irridere sono due passatempi speculari, servono a intrattenere la nostra disperazione, e l’oggetto delle due pulsioni, spesso milionario, è altrettanto spesso casuale. Dovremmo compatire i picchiatelli che poverinano la popstar, mica la popstar; chi irride i famosi, mica i famosi che vengono irrisi. Di quella cena ad attendere Tom Cruise, sono sicura, mi ricordo solo io.

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