Nell’ultima settimana in Italia si somministrano circa 81mila dosi di vaccino al giorno. Sono poche: a questo ritmo ci vorranno ben più di 2 anni per coprire il 70% della popolazione. Intanto manca una struttura di base del piano vaccinale, con le regioni che procedono in ordine sparso, i medici di base coinvolti in ritardo e le difficoltà nel venire a capo di una situazione che, come prevedibile, incontra periodicamente nuovi ostacoli.
La disorganizzazione della campagna vaccinale italiana è un’eredità del governo Conte-bis, a meno di non voler dare la colpa a un esecutivo appena formato. Il cambiamento immediato che dovrebbe vedersi nell’amministrazione di Mario Draghi dovrebbe riguardare il commissario Domenico Arcuri, relegato almeno per il momento a un ruolo di secondo piano dopo il protagonismo della stagione precedente.
In ogni caso adesso bisogna iniziare a correre. A partire da una soluzione che possa ovviare al ritardo nelle consegne dei vaccini da parte delle aziende produttrici. Almeno su quello il precedente governo non poteva farci nulla. O quasi. Per rimediare al problema il Conte-bis si era mosso in due direzioni: la minaccia di azioni legali alle case farmaceutiche che non rispettavano i patti e la produzione del vaccino di Stato.
Sul primo fronte a gennaio sono partite le dichiarazioni di guerra indirizzate a Pfizer e AstraZeneca. In televisione e sui giornali i ministri evocavano le carte bollate. Luigi Di Maio annunciava: «Noi gli faremo causa». Giuseppe Conte scriveva su Facebook: «Ricorreremo a tutte le iniziative legali per rivendicare il rispetto degli impegni contrattuali».
Parallelamente l’esecutivo aveva deciso di puntare sul vaccino italiano, sviluppato da Reithera e dall’istituto Spallanzani. A fine gennaio lo Stato è entrato nel capitale dell’azienda farmaceutica con sede a Castel Romano attraverso Invitalia, che ha investito 81 milioni di euro. Una somma importante per un farmaco che, nella migliore delle ipotesi, comincerà a essere prodotto a settembre. Attualmente è alla fase due.
Gli annunci in pompa magna, invece, erano già partiti. Quella del vaccino di Stato è stata salutata come «una scelta giusta e importante» dal ministro della Salute Roberto Speranza, mentre il commissario Domenico Arcuri spiegava: «L’obiettivo è quello di arrivare a un livello accettabile di produzione autoctona di vaccini». La comunità scientifica non ha mostrato lo stesso entusiasmo del governo per l’autarchia vaccinale.
Molti i dubbi sull’efficacia del farmaco e sull’opportunità dell’operazione. Roberto Burioni, ad esempio, l’aveva definita «una follia». E su Twitter spiegava: «Siccome non si riescono ad avere abbastanza dosi di vaccini efficaci e sicuri, invece di potenziarne la produzione il nostro Stato decide di mettere a punto un nuovo vaccino, che non si capisce neanche come verrà sperimentato».
Produrre vaccini in Italia
Negli ultimi giorni invece si è parlato della possibilità di produrre anche in Italia i vaccini già in circolazione. Convertire gli stabilimenti che preparano altri vaccini è un’ipotesi ancora piuttosto distante: se ne parlerà oggi nell’incontro che il ministro per lo Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti ha convocato con Massimo Scaccabarozzi, presidente di Farmindustria, l’associazione delle imprese del settore.
Ma il problema è che la riconversione degli impianti è estremamente complessa, e i tempi rischiano di allungarsi di molto. Lo farà ad esempio l’azienda tedesca Idt Biologika, che ha annunciato un accordo con AstraZeneca per la produzione del vaccino: investirà centinaia di milioni di euro sulla fabbrica di Dessau, ma le prime fiale non saranno pronte prima della fine del 2022.
Più plausibile invece l’ipotesi di prendere in carico uno o più sementi della produzione, dalla produzione delle materie prime alla manifattura del vaccino, dalla produzione di siringhe e delle fiale all’infialatura e il confezionamento. Secondo Massimo Scaccabarozzi, presidente di Farmindustria, in Italia ci sono già molti stabilimenti in grado di partecipare alla catena di produzione. Resta da capire perché a dicembre o a gennaio, cioè dopo l’ok dell’Ema per la produzione dei diversi vaccini, il governo Conte non sia sceso in campo proponendosi come parte della catena di produzione.
Sequenziamento del virus
Un’altra eredità del governo Conte riguarda il sequenziamento del virus, che avrebbe potuto – almeno in teoria – aiutare a individuare e contrastare con maggior anticipo le diverse varianti. È utile ricordare che oggi oltre il 30% delle infezioni da Covid-19 in Italia è dovuto alla variante inglese, e intorno alla metà di marzo la variante potrebbe essere predominante in tutto il Paese.
Il sequenziamento è la procedura che permette di studiare, analizzare e capire il virus e le sue mutazioni: un passaggio fondamentale per determinare la pericolosità delle varianti e le misure di contrasto necessarie.
Solo a fine gennaio il governo Conte aveva lanciato un “consorzio per la genotipizzazione e fenotipizzazione di Sars-CoV-2 e per il monitoraggio della risposta immunitaria alla vaccinazione”: una specie di banca dati per il controllo dei diversi ceppi di virus circolanti. Per avere dei termini di paragone: la Danimarca si è mossa proprio all’inizio della pandemia, creando il Danish Covid-19 Genome Consortium, che ogni settimana pubblica l’aggiornamento sulle attività di sequenziamento e sulle diverse varianti riscontrate.
Il Regno Unito aveva istituito il Genomic Uk lo scorso aprile, in una rete che tiene insieme la sanità pubblica, gli hub universitari e altre strutture: a metà di gennaio il consorzio aveva individuato più di 200mila genomi SARS-CoV-2. In Italia ci si è mossi quasi con un anno di ritardo.
Decreti in sospeso
Nell’eredità raccolta del Conte-bis raccolta dall’amministrazione Draghi non c’è solo la gestione della campagna vaccinale. Ci sarebbero, ad esempio, centinaia di decreti attuativi lasciati in sospeso. Come riportava ieri la Stampa, per rendere le leggi approvate dal precedente esecutivo sarebbero serviti 792 decreti attuativi, ma al momento ne sono stati adottati 253, con un fardello di 539 decreti consegnato al nuovo governo.
Al centro del dibattito pubblico oggi c’è soprattutto il decreto Ristori, anche questo lasciato in sospeso a causa della crisi di governo e atterrato nel campo dell’amministrazione Draghi. Nella prima bozza erano state stanziate le risorse per le coperture, con uno scostamento di bilancio da 32 miliardi di euro approvato a gennaio. A queste risorse in deficit andrebbero aggiunti i 5,4 miliardi accantonati dalla precedente tranche di ristori, la quarta.
Ma i tanti provvedimenti approvati nell’ultimo anno per contrastare la pandemia e la conseguente crisi economica avrebbero ancora bisogno di decreti attuativi per diventare operativi: il decreto Rilancio deve ancora avere 52 provvedimenti attuativi sui 137 totali; del DL Semplificazioni ne sono stati approvati 3 su 37; la stessa legge di Bilancio approvata a fine dicembre avrebbe richiesto 176 decreti attuativi: ne è stato approvato solo uno.
Ridisegnare il Recovery plan
E ovviamente non da ultimo sul nuovo governo pesa un Recovery Plan interamente da riscrivere. La bozza approvata lo scorso 13 gennaio era stata criticata dagli addetti ai lavori e dalle diverse parti interessate – in Italia – e anche a Bruxelles e tra le istituzioni europee l’accoglienza non era stata delle migliori.
Già dopo una prima revisione sono stati progetti per tagliati subito 14 miliardi di euro: progetti che avevano trovato posto nel documento nell’ipotesi in cui la Commissione europea potesse bocciare alcune proposte italiane oppure che si aprisse la possibilità di un finanziamento con partecipazione dei privati con conseguente necessità di piani pronti all’uso. La dote dei progetti, fissata a quota 223,9 miliardi, torna invece a essere allineata alle risorse a quota 209,5 da spendere lungo il periodo stabilito di sei anni. Ma l’opera di revisione non è certamente finita qui.
Ha contribuito Marco Fattorini.