Un paradiso fiscale, nel cuore dell’Europa: è il Granducato di Lussemburgo, piccolo Paese fra i fondatori dell’Unione europea e da qualche anno al centro dell’attenzione per le sue politiche fiscali che risucchiano ricchezza dal resto dell’Unione. L’ultima cannonata contro le mura della città-stato è l’inchiesta di un consorzio editoriale guidato da Le Monde, con la collaborazione del network investigativo OCCRP (Organized Crime and Corruption Reporting Project) e di altre testate come Süddeutsche Zeitung, Le Soir e Irpi Media per l’Italia. OpenLux, che promette scottanti rivelazioni nei prossimi giorni, svela dati impressionanti: in un territorio più piccolo della Valle d’Aosta sono registrate 55mila realtà offshore, costituite solo per detenere quote di altre società.
È cosa nota che condizioni fiscali particolarmente vantaggiose attraggano enormi capitali in Lussemburgo, dove infatti circa il 90% delle 124mila società registrate non appartiene a cittadini del Granducato. Molto meno nota è invece la reale proprietà delle aziende, offuscata da una dinamica parecchio diffusa nel mondo dell’alta finanza. Il titolare effettivo, cioè la persona che controlla concretamente il patrimonio e le finanze di una società, non coincide con il legale rappresentante, la persona che appare nei registri contabili.
Dato che le grandi società sono spesso detentrici di altre quote societarie e a loro volta detenute da holding finanziarie, diventa particolarmente complicato risalire al beneficiario finale dei profitti di un’azienda. Il titolare effettivo si nasconde dietro l’ultima società controllante, che molto spesso ha sede in un Paese dove il carico fiscale è molto inferiore rispetto a quello vigente dove le controllate fanno i loro affari.
Oltre all’elusione fiscale – secondo lo studio “The missing profits of Nations” questa pratica costa all’Italia 6,6 miliardi in meno di gettito fiscale annui -, il problema è anche il possibile riciclaggio di denaro proveniente dalle attività illecite. Schermati da una selva di prestanome e scatole cinesi, si mimetizzano fra i beneficiari finali anche nomi legati alla criminalità o ad affari sporchi, che attirerebbero l’attenzione delle autorità nazionali se comparissero a capo di una società.
La chiave per aprire questa cassaforte l’ha fornita una direttiva UE del 2018, che sull’onda dello scandalo dei Panama Papers impose agli Stati Membri la creazione di registri pubblici in cui annotare i titolari effettivi di tutte le imprese registrate sul loro territorio. Il Lussemburgo è stato uno dei primi Paesi ad istituirlo, già nel settembre 2019, forse proprio per combattere la pessima reputazione che stava acquisendo presso l’opinione pubblica comunitaria. Peccato che il database richiesto dalla direttiva non fosse in formato open data: accessibile sì, ma sostanzialmente illeggibile dal comune cittadino, che dovrebbe già conoscere il nome del titolare effettivo per poter ricercare, fra 3,3 milioni di documenti, le sue proprietà.
A questo punto entra in gioco l’OCCRP, con la sua piattaforma investigativa Aleph. Proprio come nell’omonimo racconto di Borges, Aleph è una lente sotto cui passa praticamente tutto ciò che esiste sulla Terra: grandi marchi di abbigliamento, multinazionali dell’alimentazione, jet privati e opere d’arte, cataloghi musicali e patrimoni immobiliari di lusso nelle città europee. Questa variegata moltitudine di asset molto remunerativi sparsi per il mondo entra tutta in migliaia di cassette delle lettere o nomi sul citofono: a Lussemburgo sono infatti registrate e domiciliate le holding company a cui fanno capo questi affari, ma quasi sempre al nome della società non corrisponde nemmeno un ufficio.
Il governo del Lussemburgo ha risposto affermando di «rispettare pienamente tutti i regolamenti europei e internazionali in materia di fiscalità» e di condividere tutte le informazioni in suo possesso per combattere gli abusi e l’evasione fiscale. Ma evidentemente si sente toccato dall’inchiesta, visto che lo ha fatto aprendo un sito ad hoc con il dominio openlux.lu.
«Il Lussemburgo oggi è una cerniera fra l’UE e i paradisi fiscali in giro per il mondo. Tradisce lo spirito europeo privando gli altri Paesi di consistenti entrate fiscali», commenta in una nota Sven Giegold, parlamentare tedesco da tempo attivo sul tema. Il giro d’affari provocato da questa pratica è colossale (le offshore generano almeno 6,5 miliardi di euro) ma non esaustivo: secondo OpenLux circa la metà delle imprese del Paese, 68mila, non ha ancora segnalato il proprio titolare effettivo, mentre l’esecutivo lussemburghese fissa questa percentuale al 28%.
Quello che sarà pubblicato nell’inchiesta, lanciata a puntate nei prossimi giorni, sembra comunque abbastanza per sollevare polemiche roventi. Transparency International ha già detto che l’80% dei fondi di investimento sono a rischio riciclaggio e fra i 115mila beneficiari finali (5mila i nomi di cittadini italiani) ci sono un noto trafficante d’armi, un peso massimo della mafia russa, un magnate dell’olio di palma responsabile del disboscamento in Indonesia e diversi esponenti della ’Ndrangheta. Le Monde ha segnalato anche una grossa somma di denaro trasferita in Lussemburgo dalla Lega, sulla quale è già in corso un’indagine, e fortune private dei gerarchi del regime di Maduro in Venezuela.
Ma al di là dei possibili soldi illeciti, ci sono molti capitali acquisiti in modo lecito e, sempre in modo lecito ma sottotraccia, dirottati nel Granducato per sfuggire alle tasse. Difficile trovare un’altra giustificazione per i patrimoni dei campioni dello sport, da Cristiano Ronaldo a Tiger Woods o di politici di spicco e membri di case reali, come il principe erede al trono saudita o il Re del Bahrain.
In Lussemburgo pagano le (poche) tasse tanti dei miliardari della lista di Forbes, tramite le holding di grandi aziende: Amazon, Pfizer Yves Rocher, LVMH e Chanel, ma anche le italiane Luxottica e Ferrero. Scrivono gli autori dell’inchiesta su Le Monde che è come se in queste caselle postali fossero nascosti interi pezzi dei nostri Paesi. Finora, nascosti molto bene.