«La fotografia è il mezzo di comunicazione più importante che abbiamo». Parola di Oliviero Toscani, fotografo, figlio d’arte del primo fotoreporter del Corriere della Sera, Fedele Toscani (che gli mise in mano la prima Leica), e a quasi 79 anni, insegnante di fotografia con un progetto di Feltrinelli Education.
In mezzo tanto altro: la moda, la pubblicità, i premi e un mestiere sempre più semplice per i mezzi, ma al tempo stesso sempre più complesso nella società dell’immagine, dove la comunicazione visiva è centrale in ogni contesto.
Proprio questo è il tema al centro delle sue lezioni d’autore, intitolate “Il Mestiere dell’Immagine”, articolate in un ciclo di tre video-lezioni on demand (già disponibili sulla piattaforma FeltrinelliEducation.it, per la quale Toscani terrà anche un corso di fotografia, in partenza a marzo e che terminerà a maggio, con un laboratorio conclusivo, auspicabilmente in presenza) strutturate come un viaggio attraverso la storia della fotografia, dalle origini fino ai giorni nostri, con riflessioni su come è cambiato il mestiere, soprattutto da un punto di vista tecnico, ma anche sul rapporto tra social network e immagini, nonché sulla fotografia come testimonianza del presente.
Saper comunicare con le immagini è oggi una competenza fondamentale, soprattutto in virtù del fatto che la digitalizzazione ha aumentato gli stimoli visuali a cui siamo sottoposti ogni giorno, ma anche perché grazie alle immagini conosciamo il mondo e ci relazioniamo con gli altri, esprimiamo pensieri ed emozioni, organizziamo informazioni e conserviamo ricordi.
Ciononostante, la capacità di comunicare con le immagini in modo consapevole, non è sempre una competenza diffusa. L’offerta di Feltrinelli Education parte da questo presupposto, ovvero quello di provare a rispondere alle domande di una società contemporanea (e a un mondo del lavoro) in continua trasformazione. Ed è da qui che comincia l’intervista a Oliviero Toscani.
Come si condensa l’intera storia della fotografia in sole tre lezioni? Ma soprattutto, come si costruisce uno sguardo critico a prescindere dalla conoscenza degli strumenti?
Il presupposto per condensare in tre lezioni è questo: a me non interessa la macchina fotografica. È una cosa che ripeto sempre. Per uno scrittore la macchina da scrivere non è la cosa più importante. Quando si parla di fotografie si pensa subito ai rullini, alla macchina fotografica, digitale o analogica, ma quelle sono solo tecnologie; è importante saperle usare e gestire, ma in rapporto a quello che si vuole esprimere. La grande maggioranza delle cose che conosciamo, le conosciamo perché le abbiamo viste in immagini. Siamo condizionati in modo estremo dalle immagini, non ce ne accorgiamo nemmeno, ma la foto ferma in modo particolare ogni cosa. I video, il cinema, hanno un suono, hanno una voce che racconta e si prende la responsabilità di ciò che si vede, mentre la foto è in silenzio, siamo noi che prendiamo una posizione ed esprimiamo un giudizio. La foto ci chiede di avere responsabilità di fronte a ciò che vediamo, di fronte a un’immagine ferma sui giornali. La foto ti chiede: cosa sta succedendo? Da quando esiste la fotografia, esiste la vera storia. La foto non ha traduzione, va bene per tutti, trapassa la lingua, e di fronte alla stessa immagine ognuno reagisce in rapporto alla sua cultura, al suo sapere, alla sua morale, alla sua etica ed estetica.
Se è così, allora si può insegnare la fotografia? Non si entra nello stesso dibattito che salta spesso fuori quando si parla dei corsi di scrittura creativa?
Tutto si può insegnare, il problema è che non tutto si può apprendere. Tu mi puoi insegnare a correre i 100 metri e io li correrò, ma lo farò in 2 minuti per mancanza di capacità fisiche. Oppure puoi insegnarmi l’economia con il miglior insegnamento del mondo, ma io non ci capirei niente. È una questione di talenti che si hanno oppure no, ma per me insegnare vuol dire raccontare esperienze in modo comprensibile.
Nella presentazione del corso c’è una domanda interessante e attuale: qual è la differenza tra le immagini che scattiamo con i nostri smartphone, le foto dei grandi fotoreporter e le fotografie d’artista?
Le foto d’artista sono tutte d’artista, perché artista è colui che fa le foto, poi può essere più profondo o più banale, ma non c’è differenza tra una foto fatta con un telefonino e una realizzata con una grande macchina, quello è solo un mezzo. La miglior stilografica al mondo non ti fa scrivere contenuti migliori di quelli che potresti scrivere con una matita.
A proposito di smartphone, quest’ultimo periodo di distanziamento a causa del virus ci ha portati a popolare sempre di più i social network, e in questo momento più che mai siamo dominati da social improntati sull’immagine. Tutto questo che impatto ha sulla fotografia?
Con l’evoluzione tecnica, l’espressività viene ovviamente influenzata. Oggi tutto è facile da produrre, costa meno, e perciò spesso manca la qualità. In fondo, anche la spazzatura è facile da produrre. Produciamo montagne di spazzatura, dentro alle quali c’è la qualità, ma viene soffocata da quintali di cose. Se pensi che ogni minuto vengono postate quasi più foto di tutte quelle realizzate nella storia, ricercare la qualità lì dentro diventa sempre più difficile.
Se dovesse raccontare con un’immagine l’ultimo anno, come lo rappresenterebbe?
Con uno sguardo. Credo si riesca a far capire una vita, un momento, una storia, solo con uno sguardo, che sappia raccontare tutto. Esiste una foto fatta da Richard Avedon a Marilyn Monroe che riflette e guarda nel vuoto. È una foto che le fece tra una sessione e l’altra di un servizio. Dietro a quello sguardo c’è tutta la sua vita. Oppure pensa alla rivoluzione cubana: nel ritratto di Che Guevara c’è tutto. La vera fotografia deve viaggiare su questa corrente, e deve riuscirci con un’espressione minima che non si può rifare, non puoi costruire a tavolino e non è replicabile. Devi rubare quel momento e quello sguardo. Se guardi attentamente gli occhi di una persona, sono costantemente in movimento. Per raccontare quest’ultimo anno, cercherei di fermare quel movimento.
Ha citato Richard Avedon, che peraltro dà anche il titolo a un suo libro uscito per Solferino (“Caro Avedon. La fotografia in 25 lettere ai grandi maestri”) in cui cerca di raccontare a che punto è la fotografia e come si sta trasformando. Ci sono anche Helmut Newton, di cui dice di invidiare la capacità di essere all’altezza della propria cattiva reputazione, Diane Arbus, capace di cogliere la delicatezza delle cose brutte, e Robert Capa e tanti altri. La domanda allora sorge spontanea: ci sono giovani fotografi interessanti?
Come disse Bob Dylan: c’è ancora qualcuno che canta? Scherzi a parte, ci sono i bravi fotografi, ma il mezzo soffoca. Non ci sono più i giornali, per esempio. Una volta i giornali di moda servivano anche a fare esperimenti fotografici. Infatti i fotografi di moda erano i più bravi, sperimentavo, facevano una grande ricerca estetica. Ora i giornali sono perlopiù commerciali, non esistono più nomi nuovi, esiste un unico conformismo fotografico. È diventato come tagliarsi i capelli tutti allo stesso modo. Il marketing ha ucciso tutto.
Quali sono i tuoi prossimi progetti?
Al momento è tutto fermo, soprattutto per chi fotografa esseri umani, ma per quando si potrà c’è in ballo un progetto in Germania per realizzare 200 ritratti di tedeschi nel Ventunesimo secolo, ricalcando il libro del grande August Sander, “Uomini del Ventesimo secolo” (Abscondita), fondamentale per la storia della fotografia».